Il tema del razzismo, soprattutto nel mondo dello sport, è ormai all’ordine dal giorno e, nonostante in molti si battano per cancellare definitivamente ogni forma di odio e discriminazione, si fa sempre più fatica a contrastare questa piaga sociale, anche e soprattutto perché nella maggior parte dei casi non vengono applicati provvedimenti efficaci nei confronti di chi si rende protagonista di atti tanto beceri e ignobili. In altri casi, invece, episodi del genere vengono minimizzati, ignorando quindi la reale portata di un fenomeno che trova sempre il modo di far parlare di sé, ma la cui risoluzione appare decisamente lontana.
Lo sport, in questo senso, è uno dei mezzi più potenti per combattere il razzismo. Le tante testimonianze e i contributi di tanti atleti, che hanno un notevole impatto sugli appassionati e sfruttano la loro visibilità per diffondere messaggi positivi, infatti, aiutano le persone comuni a capire la portata e l’importanza di una questione che sta diventando sempre più seria. Ultimo in ordine cronologico, nel mondo del calcio, il caso relativo a Mario Balotelli, che domenica scorsa, impegnato sul campo dell’Hellas Verona col suo Brescia, è stato preso di mira da una parte dei tifosi scaligeri. Questi ultimi, nel corso del secondo tempo, lo hanno preso di mira con i soliti cori razzisti, provocando la reazione furiosa del numero 45 delle Rondinelle, che ha calciato il pallone verso il loro settore con rabbia e ha minacciato di andarsene dallo stadio, venendo poi calmato da alcuni compagni di squadra e avversari.
Nel post-partita, Maurizio Setti e Ivan Jurić, rispettivamente presidente e allenatore del Verona, hanno dichiarato di non aver sentito i cori razzisti, col primo che ha anche sottolineato che il pubblico veronese sia contraddistinto da una particolare forma d’ironia che nulla ha a che fare col razzismo. Entrambi hanno provato a spegnere il fuoco delle polemiche, ma (com’era prevedibile) è servito a poco e video e articoli relativi all’episodio increscioso hanno fatto il giro del mondo in pochi istanti. Del resto, Balotelli è conosciuto praticamente in tutto il mondo, avendo militato in Premier League per quasi quattro anni (nel Manchester City dall’agosto 2010 al gennaio 2013 e nel Liverpool nella stagione 2014-2015) e avendo partecipato a tre competizioni internazionali con la maglia della Nazionale italiana (gli Europei in Polonia e Ucraina nel 2012, la Confederations Cup 2013 e i Mondiali 2014 in Brasile). Il tabloid britannico Guardian si è espresso in merito, sottolineando come quest’episodio possa rappresentare la distruzione delle speranze dell’attaccante, che la scorsa estate aveva deciso di accettare la proposta del neopromosso Brescia per rimettersi in gioco in Serie A e tornare a casa.
Il Giudice Sportivo ha punito il Verona con la chiusura della curva per una gara, mentre il club ha deciso di impedire l’accesso allo stadio fino al 2030 al capo ultras Luca Castellini per il suo “comportamento basato su considerazioni ed espressioni gravemente contrarie a quelle che contraddistinguono i principi etici ed i valori del nostro club”. Episodi del genere, però, purtroppo non avvengono soltanto nel mondo del calcio italiano (ancora parecchi anni luce indietro rispetto a tanti altri paesi, tra cui in particolar modo l’Inghilterra), ma anche in altri sport, tra cui il basket NBA. Col razzismo, del resto, in America ci convivono da secoli e anche il mondo della pallacanestro a stelle e strisce ne è tutt’oggi invaso. La differenza, però, è che la lega statunitense prende sempre provvedimenti duri, stroncando il fenomeno sul nascere senza farlo diffondere o limitandosi ad occuparsene in maniera impropria.
Basti pensare al caso di Donald Sterling, proprietario dei Los Angeles Clippers dal 1981 al 2014, che in una telefonata disse alla sua compagna di non farsi fotografare con “negri” come Magic Johnson e di evitare di portare con sé persone di colore alle partite dei Clippers. In seguito a queste gravi affermazioni (l’intercettazione telefonica è stata resa pubblica da TMZ), la NBA decise di bandire a vita l’imprenditore nativo di Chicago, comminandogli una multa di 2.5 milioni di dollari e costringendolo a vendere la franchigia, poi passata – per 2 miliardi di dollari – nelle mani di Steve Ballmer, tuttora proprietario della squadra.
Più recente, invece, il caso di Russell Westbrook, playmaker trasferitosi dagli Oklahoma City Thunder agli Houston Rockets la scorsa estate. Lo scorso 12 marzo, in occasione della sfida vinta per 98-89 da OKC sul campo degli Utah Jazz, il classe ’88 – autore di 23 punti, 11 rimbalzi e 8 assist – era stato pesantemente insultato da Shane Keisel, un tifoso avversario, che per provocarlo gli aveva detto di inginocchiarsi “come siete abituati a fare voi neri”, scatenando la reazione furiosa del numero 0 dei Thunder. Gli Utah Jazz, dal canto loro, non hanno esitato a squalificare a vita il tifoso e la moglie dal palazzetto di Salt Lake City (per ogni evento organizzato alla Vivint Smart Home Arena, non soltanto le partite di pallacanestro), esprimendo la massima solidarietà nei confronti di Russell Westbrook e condannando ogni forma di razzismo e discriminazione con un comunicato.
Insomma, in un mondo che guarda al futuro senza paura, si parla sempre più e spesso di cose che oggi, nel 2019 che ormai volge al termine, dovremmo considerare appartenenti a un passato che non esiste più, ma purtroppo non è così e episodi di questo tipo avvengono con una frequenza inaudita. La differenza, abbastanza palese, tra il calcio (italiano) e il basket (americano), è che nell’ambito del primo molti ritengono che il problema non esista o che venga ingigantito, altri fanno finta di non sentire o non vedere e i provvedimenti sono spesso poco efficaci, quasi come se si volesse dare l’impressione di combattere il fenomeno, senza però fare nulla di realmente concreto nei confronti dei diretti responsabili. Nel secondo, invece, certe cose non vengono tollerate sin dall’inizio: c’è un regolamento che va rispetto e chi vi si adegua può godersi lo spettacolo al meglio. Chi non lo fa, può scordarselo per sempre, senza possibilità di avere un’altra occasione. Perché chi si rende protagonista di certe cose merita soltanto di essere isolato dalla bellezza e dalla passione del mondo dello sport.
Dennis Izzo
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Articoli di proprietà di Voci di Città, rilasciati sotto licenza Creative Commons.
Sei libero di ridistribuirli e riprodurli, citando la fonte.
Coordinatore editoriale di Voci di Città, nasce a Napoli nel 1998. Nel 2016 consegue il diploma scientifico e in seguito si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli. Tra le sue tanti passioni figurano la lettura, i viaggi, la politica e la scrittura, ma soprattutto lo sport: prima il calcio, di cui si innamorò definitivamente in occasione della vittoria dell’Italia ai Mondiali 2006 in Germania, poi il basket NBA, che lo tiene puntualmente sveglio quasi tutte le notti da ottobre a giugno. Grazie a VdC ha la possibilità di far coesistere tutte queste passioni in un’unica attività.
“Se c’è un libro che vuoi leggere, ma non è stato ancora scritto, allora devi scriverlo.”