La crisi del calcio italiano non parte certamente ieri. Da troppi anni si parla di rifondazione. Dovevamo rifondare nel 2010. Poi nel 2014. Quindi nel 2017 dopo la sconfitta contro la Svezia, per quello si credeva essere il punto più basso del calcio italiano. Quindi giovedì, 24 marzo 2022, in cui si è riusciti a fare peggio dello spareggio per Russia 2018 perdendo contro una nazionale ancora più modesta come la Macedonia del Nord. In mezzo le gioie europee: il bel percorso con Prandelli del 2012. La modesta nazionale capace di arrivare ai quarti di Euro 2016. Fino alla vittoria, meritatissima, dell’Europeo giocato nell’estate del 2021.
Com’è possibile che una nazionale che gioca bene, convince e vince la competizione continentale per nazionali non riesca ad accedere alla fase finale mondiale dal 2014? Cerchiamo di analizzare, con lucidità, le criticità del calcio azzurro.
Doveroso partire dal tecnico della nazionale Roberto Mancini. Anche perchè, rispetto all’eliminazione del 2017 contro la Svezia di acqua sotto i ponti ne è passata. L’ex Inter e Manchester City trovava dopo il disastro vVntura un deserto. Un deserto di idee, un deserto tattico, un deserto tecnico. Ha avuto la pazienza, la lungimiranza e il coraggio di ricostruire con un concetto nuovo di calcio. Rifondando dai giovani, costruendo un forte gruppo, imponendo un’idea di gioco semplice ma puntuale ed efficace. E la vittoria all’Europeo, non è casuale, ma ben meritata. Un trofeo che rischia di essere, però, un diamante nel deserto.
Dopo il trionfo di Wembley l’Italia ha sprecato troppo. I pareggi contro Bulgaria e Irlanda del Nord. I rigori sbagliati contro la Svizzera. La Svizzera appunto, che non era la Spagna di 4 anni prima. E poi la Macedonia del Nord, affrontata con la sicurezza di vincere. E anche in questo caso l’avversario era più abbordabile rispetto alla Svezia. Specie se affronti queste formazioni da campione d’Europa in carica. E allora succede che il girone lo devi vincere ma riesce nell’impresa una squadra più modesta (e battuta ai gironi dell’Europeo). Succede che contro la Macedonia del Nord devi passeggiare ma soffri, non segni, non chiudi il match e al 91′ subisci il goal che ti spezza le gambe.
Mancini ha dimostrato di essere capace a costruire un gruppo forte in un tempo consono (come il mese e mezzo dell’Europeo). Lo stesso gruppo che al netto di infortuni e indisponibilità ha deciso di convocare per questo spareggio. E quando vedi una squadra dominare nel gioco ma non segnare, ti rendi conto che le responsabilità non sono solo, come sempre si vuol pensare, dell’allenatore. Che in fondo in campo ci vanno i calciatori e che le colpe sono dividere in eque parti. E forse, in certi casi, un responsabile fisico non c’è e bisogna scavare nelle profondità di un iceberg spaventoso.
Partiamo dal principio, perché in fondo i calciatori italiani provengono, per la maggior parte, da club italiani. O almeno in questi crescono nei primi anni prima di spiccare il volo (Jorginho, Emerson, Verratti e Donnarumma compresi). I club italiani non si sono evoluti negli ultimi 20 anni. Dopo il 2006 solo due squadre si sono affermate a livello continentale: il Milan di Ancelotti nel 2007 ad Atene e l’Inter di Mourinho nel 2010 a Madrid. Poi il vuoto o quasi. Squadre in rifondazione e squadre in difficoltà. La Juventus ha dominato dal 2011/2012 al 2019/2020 in Serie A. L’Inter ha fermato questa egemonia nel 2020/2021. E proprio queste due squadre sono state le uniche a raggiungere una finale continentale: la Juventus in Champions nel 2015 e nel 2017, l’Inter in Europa League nel 2020.
Per il resto parliamo di competizioni in cui le italiane fanno da comparsa o quasi al di là di rare eccezioni. Milan e Inter hanno trovato non poche difficoltà a tornare in Champions. I neroazzurri e i rossoneri hanno arrancato nei gironi degli ultimi anni. L’Inter ha raggiunto gli ottavi solo in questa stagione, il Milan non li raggiunge dal 2014. La Juventus la fase a gironi l’ha superata più e più volte ma nelle ultime 3 edizioni è giunta l’eliminazione contro le non proprio irresistibili Lione, Porto e Villareal. La Roma ha raggiunto la semifinale contro il Liverpool, inanellando prima e dopo una serie di figuracce europee di cui non vorremo neanche riparlare.
Nel frattempo le squadre inglesi, spagnole e il Bayern Monaco (perché parlare di squadre tedesche sarebbe in malafede) hanno sbaragliato la concorrenza. La Premier e la Liga sono a mani basse i campionati più seguiti al mondo. Dal 2010 ad oggi la Champions League è stata vinta da Barcellona (2 vittorie), Chelsea (2 vittorie), Bayern (2 vittorie), Real Madrid (4 vittorie) e Liverpool. Nello stesso periodo hanno trionfato in Europa League il Porto, l’Atletico Madrid (2 vittorie), il Chelsea (2 vittorie), il Siviglia (4 vittorie) il Manchester United e il Villareal. 8 di queste 10 squadre provengono da Liga (ben 13 vittorie continentali) e Premier League (6 vittorie continentali). La Germania ne vanta 2, e il Portogallo (vera outsider di questo gruppo) solo la vittoria del Porto in EL del 2010/2011. Su 22 finali complessive l’Italia ha timbrato la presenza, come dicevamo all’inizio, solo 3 volte e con sole due squadre. Come già detto il campionato italiano non vanta una Champions in bacheca dal 2010, per quanto riguarda l’Europa League dobbiamo andare a ritroso fino al 1999 con il Parma.
Il paragone con Liga e Premier, finanche alla Bundes (con il solo Bayern) risulta dunque impietoso.
Passiamo dunque al trofeo individuale più ambito. I giocatori di Liga e Premier ormai dominano la top 10 del pallone d’oro. Chi invece ha militato nelle nostre squadre? Dal 2008 a oggi, eccezion fatta per Modric (e per il 2020, in cui con ogni probabilità sarebbe stato assegnato a Lewandowski), il pallone d’oro è stata una disputa tra Cristiano Ronaldo e Messi. E al di là delle polemiche per chi avrebbe dovuto vincerlo in certi anni in cui, magari, certi giocatori lo avrebbero meritato più di CR7 e la Pulce, resta il dato sui primi 10. Le presenze in top 10 per la Serie A sono state centellinate a pochi interpreti.
Dal 2008 ad oggi solo Kakà, Ibrahimovic, Sneijder, Pirlo, Buffon, Cristiano Ronaldo, Jorginho e Donnarumma hanno rappresentato un club italiano tra i primi 10. Sotto l’effige della Serie A l’ultimo vincitore è proprio il brasiliano ex Milan. Da quel momento si assiste ogni anno a una totale egemonia della Liga (con almeno 1 rappresentante per anno, fino all’edizione record del 2010 con 8 su 10), una costante presenza della Premier (almeno un rappresentante per anno con il picco del 2019 con ben 6 rappresentanti), alcuni picchi per la Bundes Liga strettamente legata a Bayern Monaco, Borussia Dortmund e nazionale tedesca e infine sparute apparizioni per campionati meno in vista come Ligue 1, Eredivisie, Premier russa e campionato brasiliano.
La Serie A non ha avuto alcun rappresentante in top 10 nel 2014 e nel 2015. In certe edizioni solo Pirlo o Buffon hanno garantito alla Serie A (e anche all’Italia) un rappresentante nelle prime posizioni.
Se poi, dato che di nazionale si sta parlando, volessimo concentrarci solo sui giocatori italiani, il confronto assume i caratteri del grottesco, restringendo il gruppo ai soli Pirlo, Buffon, Donnarumma e Jorginho. Di questi solo l’ex Verona, in virtù proprio dell’Europeo vinto a Wembley ma anche delle vittorie con il Chelsea, è l’unico italiano dal 2007 ad arrivare a podio. Buffon è il giocatore ancora in attività ad essere arrivato più vicino alla vittoria (secondo nel 2006), mentre l’ultimo pallone d’oro azzurro è Cannavaro (sempre 2006), ritirato dal 2011.
Il calcio negli ultimi 10 anni si è evoluto a un passo inverosimile. Lo ha fatto nella velocità di gioco, nell’atletismo messo in campo e nell’economia. Gli stadi hanno continuato a rinnovarsi, le squadre, dopo l’esempio Barcellona, hanno investito sempre più milioni nel vivaio e nella creazione di centri all’avanguardia per i campioni del domani.
La Uefa Youth League dal 2013/2014 è la competizione di riferimento per i giovani giocatori in Europa. La Champions degli under-19, per intenderci. Una competizione vinta 2 volte dal Barcellona, 2 volte dal Chelsea, una dal Salisburgo, una dal Porto e una dal Real Madrid. Tra queste il Chelsea è arrivato in finale altre due volte, il Benfica ben 3, il PSG e lo Shakhtar una volta. Andando a ritroso fino alle semifinali troviamo anche la presenza di squadre come Anderlecht, Schalke 04, Hoffenheim, Manchester City e Ajax, con le già citate Barcellona, Real, Porto e Salisburgo che più volte hanno provato l’accesso alla finalissima, oltre alle vittorie raggiunte nella competizione. Tutte squadre storicamente o recentemente fucine di giovani talenti internazionali.
E le italiane? La Roma è l’unica proveniente dalla Serie A a essere arrivata almeno in semifinale, nel lontano 2014/2015. Di quella rosa Lorenzo Pellegrini, ancora nella squadra capitolina, è il giocatore più in vetrina. Poi Sanabria (oggi al Torino), Marchizza (Empoli) e Verde (il 10 dello Spezia) gli unici a giocare in Serie A. Gli altri? Sparsi tra serie minori (alcuni anche in Serie D) e campionati dell’est.
Ma dunque i giovani calciatori italiani hanno perso talento? Com’è stato possibile passare in poco più di 15 anni dal costringere Del Piero e Totti alla staffetta, Gilardino e De Rossi alla panchina a chiamare Joao Pedro con la numero 9 a risolvere i nostri problemi offensivi? Le parole di qualche giorno fa del c.t. dell’Under 21 Paolo Nicolato, sintetizzano in senso pratico il concetto: “Abbiamo bisogno di mettere sul piano della discussione l’utilizzo dei giovani. Il calcio italiano rischia di subire questa situazione, abbiamo bisogno di ragazzi per la Nazionale A. Continuando così, saremo costretti a pescare dalla Serie C o naturalizzare oriundi. In attacco praticamente non gioca più nessuno. L’Europa ci sta insegnando molte cose: dobbiamo avere umiltà e occhi. In alcuni reparti non gioca veramente nessuno, come in attacco. Sono preoccupato, spero non ci siano incidenti”.
Riportiamo i dati condivisi da Gazzetta dello Sport successivamente alle parole di Nicolato: la media dei giocatori U21 nel campionato di Serie A è di 2,7 giocatori a squadra; la percentuale dei minuti giocati del 4%; la percentuale di titolari e 0,43%; l’80% entra dopo il 70′; in Serie B ci sono 3,7 under 21 a squadra, con il 7% dei minuti giocati e solo 0,8% titolari, mentre il 65% entra oltre il 70′. I dati, dunque, danno ragione al tecnico quando parla di carenza di giocatori da cui attingere.
In questi anni di “riforme regolamentari nel calcio italiano” ne abbiamo sentito di ogni, dalle più assurde alle più concrete. Tra queste, sicuramente, l’abbassamento a 18 o addirittura a 16 delle squadre partecipanti nella Serie A, al fine di aumentare la competitività della zona media della classifica (che solitamente perde d’interesse da marzo/aprile in poi). Si è parlato molto anche del tempo effettivo, in virtù della bassa intensità del calcio italiano. E, soprattutto si è parlato del reinserimento della quota stranieri per squadra.
Partendo dal primo punto analizzato, il numero di squadre non sembra essere il primo dei problemi del calcio italiano. Basta guardare Liga e Premier per smentire quest’assunto: 20 squadre per campionato. E sulla competitività di questi due campionati, così come delle rispettive nazionali non c’è molto da aggiungere. Passiamo dunque al tempo effettivo: una regola che andrebbe applicata all’intero sport, non solo nella sua “variante italiana”. Ma soprattutto, siamo sicuri che sia la soluzione per la bassa intensità? Basti vedere una partita di Liga o di Premier per rendersene conto: gli arbitri fischiano solo il necessario, senza mezzi falli o voli pindarici. I giocatori lo sanno e, tranne in rari casi, non protestano, non fanno scenate e non si fermano. Il gioco scorre fluido ed è anche piacevole da guardare. I minuti di recupero sono circa 2-4 e non si arrivano alle cifre vertiginose del campionato italiano.
Avete presente la partita tra Torino e Venezia di febbraio? 14 minuti di recupero nel secondo tempo. A cui se ne aggiungono 2 del primo. Tempo giocato 105:37. Non è purtroppo l’unico caso e soprattutto non è il caso con maggiori minuti di recupero, ma solo quello più recente. Va riformata la classe arbitrale italiana piuttosto, nelle linee guida, nell’atteggiamento, nell’intensità dei fischi, nella volontà di fermare il gioco il meno tempo possibile.
Passiamo infine alla quota stranieri. Molti amanti del calcio (più attempati di chi scrive), parla di tale regola in memoria della Juventus che vinceva in Europa, forniva all’Italia i giocatori vittoriosi a Spagna ’82 e giocava con Boniek e Platini. Ma quei tempi sono ormai lontani e il calcio è più globale. La Premier a su 502 giocatori conta ben 329 stranieri. La Liga su 516 ne conta 225. La Serie A su 553 ne conta 343. Le vecchie regole sono anacronistiche, dunque, tuttavia possono essere “modellate” per i giorni nostri.
Sempre meno giovani vengono fatti esordire in prima squadra. Quando si parla delle fasi clou del campionato e dei match interessati per scudetto, zona Europa e zona retrocessione, l’utilizzo è centellinato o inesistente. Un inizio, invece, potrebbe essere l’inserimento di una quota minima di italiani in rosa (e non di stranieri, cosa ben differente), e, soprattutto, di Under presenti nei convocati nonché di giovani provenienti dal vivaio della squadra.
Per storia, blasone, trofei conquistati in Nazionale e con i club rappresentanti. Si parlava di rifondazione già nel 2006: “non culliamoci di questa grande e inaspettata vittoria“. Se ne parlava nel 2010 e nel 2014. Se ne è parlato chiaramente nel 2017 dopo la partita di San Siro contro la Svezia e addirittura dopo la vittoria dell’Europeo, ripetendo le stesse parole di 15 anni prima. Ma il momento è adesso, o continueremo a vedere i nostri giovani allontanarsi sempre più dal calcio giocato. Molti bambini nati dopo gli anni 2010 non hanno avuto il piacere di tifare davvero Italia durante un mondiale.
Tanti giocatori giovani che fanno parte di questa Nazionale, come già scritto in un articolo di ieri, non hanno ancora giocato un mondiale: Chiesa, Donnarumma, Zaniolo, Scamacca, Barella, Pellegrini e Jorginho. Chiellini e Bonucci non arriveranno mai a giocare oltre i gironi, idem, probabilmente, Verratti che nel 2026 avrà 34 anni. Un’intera generazione di giovani calciatori italiani, al di là della vittoria di Euro 2020, è stata letteralmente bruciata. E avrà forse una sola occasione (o neanche quella) di partecipare alla kermesse più desiderata di questo sport.
Ma non si deve ripartire solo dall’introduzione di nuove regole, di nuove linee guide arbitrali o di quanto buono lasciato da Mancini. Si deve ripartire dalle fondamenta. Dal calcio italiano dilettantistico, troppo spesso lasciato in disparte ma da cui, spesso se ne dimentica, arrivano la maggior parte dei talenti prima di approdare nelle giovanili di Serie A o B.
Lo stesso calcio giovanile in cui molti tecnici inseguono più il risultato che la formazione di giovani calciatori. In cui si acuisce ancor di più la questione del mezzogiorno, con molti campi del sud ancora in terra e fatiscenti. In cui contano più i contatti che il talento. Un buon procuratore può arrivare più in alto di un giovane calciatore capace di cambiare un match con intelligenza tattica e superiorità tecnica.
Soprattutto lo stesso calcio non contemplato (così come in generale il mondo sportivo) nella formazione scolastica italiana. In cui i giovani atleti sono letteralmente intimoriti da professori poco inclini a comprendere la carriera di un giovane sportivo, tanto a livello professionistico quanto a livello dilettantistico. La rivoluzione dovrebbe partire dal basso.
Si parla spesso di “sistema malato”. Ma fin quando non verranno restaurate le fondamenta da zero, nessuna rivoluzione riuscirà mai ad attuarsi nel calcio italiano.
Francesco Mascali
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Proprietario, editore e vice direttore di Voci di Città, nasce a Catania nel 1997. Da aprile 2019 è un giornalista pubblicista iscritto regolarmente all’albo professionale, esattamente due anni dopo consegue la laurea magistrale in Giurisprudenza, per poi iniziare la pratica forense presso l’ordine degli avvocati di Catania. Ama viaggiare, immergersi nelle serie tv e fotografare, ma sopra tutto e tutti c’è lo sport: che sia calcio, basket, MotoGP o Formula 1 non importa, il week-end è qualcosa di sacro e intoccabile. Tra uno spazio e l’altro trova anche il modo di scrivere e gestire un piccolo giornale che ha tanta voglia di crescere. La sua frase? «La vita è quella cosa che accade mentre sei impegnato a fare altri progetti»