Ore 3,36 di una calda notte di fine estate, la terra trema lungo la dorsale appenninica in un piccolo lembo che unisce Lazio, Marche e Abruzzo. All’improvviso la natura si risveglia e mostra il suo lato più crudele e spietato, inghiottendo vite umane e fabbricati nel giro di una dozzina di secondi. Ciò che rimane dopo la sciame sismico è soltanto un cumulo di macerie e di detriti disseminati lungo le strade di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Si tratta di scene già viste fin troppe volte, dal Belice al Friuli, passando per l’Irpinia, L’Aquila e l’entroterra emiliano.
Se da un lato si registra la straordinaria efficienza della macchina organizzativa messa subito in piedi da Prefetture, Protezione Civile, Forze dell’Ordine e numerosi volontari, dall’altro si comincia a fare la conta dei danni, in termini di perdite umane e materiali. In prima battuta ci si chiede se ci fosse la benché minima possibilità di evitare quella che, in queste ore, sembra assumere sempre di più i contorni di una tragedia annunciata. Di certo non lo scopriamo oggi, accendendo la televisione e guardando con sgomento le terribili immagini che ci vengono proposte con insistenza, che l’Italia sia un Paese ad altissimo rischio sismico. È pur vero che in passato una buona fetta di edifici sono stati costruiti senza rispettare alcun criterio in termini di prevenzione, anche in aree particolarmente esposte. In tal senso occorre al più presto predisporre un censimento di tutti gli immobili costruiti in aree soggette al rischio sismico per far sì che in futuro si possa evitare, o quantomeno contenere, la furia di movimenti tellurici particolarmente intensi come quello che ha colpito duramente il cuore dello Stivale.
Gabriele Mirabella
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