Il processo Masi è approdato in Cassazione, ultima spiaggia dopo i due precedenti giudizi sfavorevoli. Nel 2008, il maresciallo dei Carabinieri Masi riceve a suo nome una multa di 106 € per eccesso di velocità; decide, allora, di presentare richiesta di esonero dal pagamento, sostenendo di aver utilizzato il proprio automezzo privato ai fini di un’indagine di polizia giudiziaria. Come prova della discolpa, il sottoufficiale riesuma la relazione di servizio del giorno in cui gli è addebitata la contravvenzione. Tale verbale, contrariamente alla solita prassi, era stato autenticato dallo stesso carabiniere, il quale aveva apposto accanto alla firma la piccola sigla APS, cioè Assente Per Servizio. Sulla base di tale vizio di forma, il superiore di Masi inoltra alla Procura la notizia di reato gravante in capo al suo sottoposto. Mentre l’accusa si fa forte dell’assenza di una documentazione che attesti la patrica di usare mezzi privati in servizio, altri commilitoni confermano l’utilizzo ufficioso di questa prassi. A queste ultime dichiarazioni, tuttavia, non è riconosciuto in udienza il valore di testimonianz,a perché ritenute irrilevanti e non tempestive; e non è dato peso nemmeno alla voce del sindacato di Polizia COISP, il quale ribadisce come una realtà consolidata l’impiego di risorse personali al fine di assicurare maggiore efficienza al servizio pubblico. Nell’ottobre 2013, la Corte d’appello ha fatto decadere l’imputazione per falso ideologico, poiché è stata provata la reale presenza dell’uomo in servizio nel giorno della multa; eppure, contestualmente è stata pronunciata in danno a Masi la condanna a sei mesi di reclusione per falso materiale e tentata truffa.
Nel cuore popolare tuona forte il sospetto che si stia consumando una vera persecuzione contro il maresciallo a causa della sua lotta alla corruzione, tant’è che sono stati organizzati diversi cortei a sostegno dell’uomo in tutta Italia. Infatti, il carabiniere era già noto al mondo processuale per la sua deposizione in tribunale contro il generale Mori e il Colonnello Obinu, prima accusati e poi prosciolti dall’accusa di aver favorito la mancata cattura del boss Provenzano. Inoltre, già nel 2006, Masi aveva dato notizia alla stampa del mancato sequestro di richieste della mafia allo Stato rinvenute nel corso di un’operazione. «Il Capitano Angeli mi disse che, nel corso di una perquisizione a casa Ciancimino, trovò il papello di Totò Riina e informò della scoperta il suo superiore, il Colonnello Sottili, ma questi gli ordinò di non sequestralo, sostenendo che già lo avevano», aveva dichiarato il carabiniere in sede di dibattimento, aggiungendo anche: «Usavamo le macchine di amici perché i mafiosi conoscevano le nostre auto di servizio». In quella occasione, l’avvocato di Mori aveva sottolineato la precarietà di tale testimonianza, poiché il teste ormai era accusato di falso materiale, additando i ripetuti trasferimenti del militare come sintomo di instabilità. Infatti, se all’inizio di tutte queste vicende il maresciallo era assegnato al Nucleo operativo di Palermo, presto si era ritrovato a militare come caposcorta di Di Matteo, il pubblico ministero noto per l’attentato che i boss palermitani stanno pianificando nei suoi confronti.
Sebbene per il carabiniere il pericolo di un’effettiva reclusione sia scongiurato grazie a cavilli giuridici, il Codice penale militare obbliga alla destituzione in caso di sentenza di ultimo grado con esito negativo. Fino a qualche tempo fa, vi era un dubbio al riguardo: chi è davvero il maresciallo capo Masi? Un uomo che paga lo scotto della fedeltà ai principi di verità e giustizia, oppure un carabiniere che non ha dato valore al posto fisso e all’onore personale? La Cassazione giorni fa si è pronunciata: da quel preciso istante, per l’Italia Masi sarà per sempre un criminale.
Claudia Rodano
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