Beppe Severgnini ha ospitato i ragazzi della Scuola di Politiche in casa sua, alla Fondazione Corriere della Sera. Intervistato da Alessia Mosca, politica e membro del Parlamento europeo, ha cercato di trasmettere un valore che oggi sembra ormai perduto: l’importanza di avere una guida da seguire lungo la strada per il successo.
MILANO – È sembrato un dialogo tra veri amici, piuttosto che un’intervista, l’incontro tenutosi in via Balzan poco prima di mandare in stampa il nuovo numero di Sette, il settimanale di cui Beppe Severgnini è direttore. Alessia Mosca ha invitato Severgnini a trasmettere, in poco più di un’ora, la passione per un mestiere, quello del giornalista, che oggi più che mai sembra aver perso quella lucidità dei tempi passati. Non è soltanto a causa della tecnologia o dei new media che i giornali non vendono più come prima, ma piuttosto è la mancanza di professionalità che ha reso il settore povero di competenza e ricco di un perbenismo fine a sé stesso. Il narcisismo dell’autore seduto davanti a una scrivania si è sostituito alla suola delle scarpe consumata nel cercare una notizia, e questa è la vera condanna del giornalismo 3.0 (o 4.0, per alcuni). Per questo è importante che la competenza la quale può essere acquisita dagli aspiranti del mestiere, lo sia soltanto con l’aiuto di una guida, di un maestro.
«Esiste ancora una genitorialità professionale?»: è stata questa la domanda, posta da una dei cento studenti seduti in aula, a far partire la riflessione di Severgnini, visibilmente emozionato mentre rispondeva. Racconta della sua redazione costituita perlopiù da giovani autori che quotidianamente corregge, insegnando loro le regole per fare buona informazione e combattendo il pressapochismo. Spera di non risultare paternalistico con le sue parole, anche se la cosa – ammette – lo lusinga. Si è reso conto della potenza di un buon maestro quando ha tenuto lezioni in diverse università italiane. Incredibilmente – racconta – vi erano ragazzi, di poco più di vent’anni, che lo capivano perfettamente e che coglievano le sue tracce. La parola insegnante, infatti, viene dal latino insigno, ovverosia il dovere di lasciare un segno nelle persone. Ma per fare questo è necessario aver esaurito, o meglio consumato, il proprio periodo narcisista, il quale appartiene a tutti. Il problema sorge quando il momento della “genitorialità professionale” è usato per aggiungere una medaglia sul proprio petto: solamente una volta soddisfatto l’amor proprio, si è pronti per il passo successivo. Pensandoci, non sa quanto queste esperienze lo possano arricchire, ma oggi non sente più il bisogno di riconoscimenti alla carriera e ammette che insegnare, egoisticamente, lo riempie di soddisfazione.
Doveroso per il direttore ricordare le parole di Arbasino: «In Italia c’è un momento in cui si passa dalla categoria di “brillante promessa” a quella di “solito stronzo”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro». Fortuna che Severgnini sa di avere e che si tiene molto stretta, un po’ perché la cosa lo diverte, un po’ per responsabilità. Davanti a un Paese che sembra abbandonare, fuori dai propri confini, le menti più brillanti, incontrare qualcuno, come per le cento persone sedute di fronte a lui (visibilmente rigenerate da quell’incontro) il quale crede ancora in certi valori, ha illuminato i loro animi. Per concludere, un consiglio: «Non abbiate paura di essere impopolari». Severgnini, con questa frase, sottolinea l’importanza di imparare a ragionare a lungo termine, seguendo con costanza un progetto anche quando ci si sente svantaggiati; e facendo attenzione, allo stesso tempo, a non cadere nella categoria dei “lisciatori di pelo“, imparando, quindi, a essere lungimiranti. «L’importante – conclude – non è passare l’estate, ma passare alla storia».
Sara Forni
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