Per quale motivo negli ultimi vent’anni si è propagato l’uso del termine “femminicidio”? Se ve lo siete chiesti almeno una volta, questo è il posto che fa per voi. Questo termine, introdotto all’inizio degli anni ’90, sta ad indicare la sostituzione che si fa di termini come “delitto passionale”. Ma perché alcuni hanno sentito la necessità di sostituire questa espressione? Cosa c’è di sbagliato?
Il termine “delitto passionale” appare oggi profondamente errato e illusorio. Esso implica una scala di valori che si ricollega agli amori romantici dell’800, agli amori romantici ma dannati che finivano in tragedia ma che non erano e non dovrebbero essere veritieri. Insomma, va bene il romanzo, ma nella realtà bisognerebbe augurarsi altro. Altra isotopia ricorrente è quella del “raptus di follia” che si porta dietro altri significati che discolpano chi commette l’omicidio e ne alleggerisce la coscienza. Se un soggetto è dichiarato “stupido” o “pazzo” non potrà essere giudicato “cattivo”, quindi non può essere socialmente (e giuridicamente) imputabile. Ebbene sì, la colpa è un argomento centrale leggendo i giornali. Ci si accorge di quanto la colpa e lo shaming verso la vittima sia assolutamente ricorrente e incoraggiato, tanto che ormai non ci si fa neanche più caso. Questi termini non fanno riferimento spesso alla vittima ma al movente che sta dietro l’omicidio, quasi come a voler giustificare in un certo senso l’accaduto. Queste espressioni sono assolutamente deleterie per il giornalismo perché svaluta la credibilità del settore e impone un certo senso di colpa ambigua alle vere vittime del “raptus omicida”.
Alcuni obiettano sull’uso del termine “femminicidio” perché, a loro avviso, potrebbe dare una parvenza di specificazione, utile a dare una gerarchia di valori rispetto ad un altro tipo di omicidio. In realtà non è propriamente così. Il femminicidio ha delle caratteristiche particolari e per questo andrebbe inquadrato come fenomeno, non come gerarchia. Da tempo si pongono delle classificazioni per i tipi di omicidio ma nessuno ha avuto mai da ridire sull’infanticidio o sull’uxoricidio, il femminicidio invece non viene accettato da tutti. Eppure esso rappresenta la prima causa di morte in Italia per le donne tra i 16 e i 44 anni, è l’omicidio con movente di genere per cui si uccide perché si è donna e si umilia la vittima in quanto donna.
Altri ancora si chiedono che bisogno ci sia di usare proprio questa parola se già abbiamo il termine “omicidio”. Il vocabolario potrebbe offrire una spiegazione utile a riguardo. Sullo Zanichelli ci sono particolari varietà di sinonimi di “femmina”, tutti dispregiativi. La spiegazione del termine “femmina” tocca il genere sessuale, la femminilità nell’aspetto e la sua gradevolezza e una serie di dispregiativi riferiti alla femmina di mondo o di guadagno, una meretrice insomma. Per poi toccare la femminaccia, femminella/o, femminona e femminarda. Perché quindi il “femminicidio” si chiama così? Per colpa di quella connotazione negativa della specificazione “femmina” rispetto ad un’altra parola come “donna”. Quindi, l’omicidio volto a richiamare l’esaltazione di quei valori dispregiativi usa il termine “femmina” e non “donna” non a caso.
Le parole “tossiche” del giornalismo sono tante. Non sono pericolose solo per la svalutazione del settore ma anche in vista di un auspicabile miglioramento della mentalità dei ragazzi di oggi. Finché anche i mass media useranno alcuni termini a sproposito, la società avrà meno chance di crescere.
Serena Borrelli
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