I robot costituiscono ormai uno degli elementi chiave della produzione industriale ed informatica moderna. La manodopera da essi prodotta dimostra, con risultati sempre più sorprendenti, quanto l’attività svolta da un individuo costruito in metallo e circuiti possa essere più rapida ed efficente di quella di un uomo in carne ed ossa. Un articolo del Financial Times, in merito, ha provato a dare una risposta in modo ironico e fantasioso ad un tema molto caldo nel settore: la responsabilità per i danni causati dai robot nello svolgimento delle loro mansioni. Fino a che punto si estende la responsabilità dei proprietari per un danno imprevisto causato dall’intervento di una macchina? Con quali criteri, inoltre, quantificare eventuali risarcimenti?
Secondo il suddetto articolo, riportato dalla rivista britannica, la risposta troverebbe (in maniera del tutto inaspettata e soprendente) il suo fondamento nell’antico diritto romano. Secondo un principio generale agevolmente comprensibile, il proprietario di un oggetto risponde anche dei danni eventualmente causati da quest’ultimo. Quindi la stessa regola potrebbe essere applicata anche in questo caso, senza troppe perplessità. Eppure, secondo il Financial Times, se dovessimo considerare un macchinario robotico di un’intelligenza paragonabile a quella di un essere umano, sarebbe necessario porre un’ulteriore distinzione. Secondo l’impostazione giuridica romana, gli oggetti che godevano di un intelletto pari a quello umano prendevano il nome di schiavi, quindi, secondo un paragone volutamente fantasioso, i robot al giorno d’oggi mantengono la stessa considerazione degli schiavi secondo gli antichi romani.
Considerato quanto riportava il giurista Gaio nelle Istitutiones, se uno schiavo causava nella sua attività un certo danno, il padrone aveva il diritto di stabilire se addossarsi la responsabilità dell’atto compiuto dal sottoposto o, al contrario, realizzare la vendita dello stesso schiavo verso la persona offesa per risarcire quanto dovuto. Pertanto, nell’impostazione storica romana, quando uno schiavo cagionasse un danno nettamente superiore al suo valore, risultava molto conveniente per il padrone realizzare un cosiddetto “abbandono nossale” del sottoposto. Per lo stesso principio, tale prassi potrebbe essere forse utilizzata un giorno per rispondere alle esigenze menzionate precedentemente. Ovviamente, però, trattasi di riflessioni che non hanno attendibile riscontro nel settore, sebbene non si possa esserne certi.
Francesco Laneri
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