Nei fatti di cronaca di questi ultimi giorni si è molto discusso intorno alla vicenda della giovane ragazza bengalese vittima dei genitori, i quali le avrebbero rasato i capelli come punizione per aver rifiutato di indossare l’hijab, il velo islamico. Se in poco tempo lo spiacevole episodio è riuscito ad ottenere grande rilevanza agli occhi dell’opinione pubblica, tuttavia nelle varie narrazioni che si sono susseguite al riguardo, spesso nell’analizzare l’accaduto non è stato possibile prescindere dal “filtro dell’occidente”, sguardo con il quale tendiamo sempre ad accostarci a qualsiasi fatto di cronaca che riguardi l’Islam. Vogliamo veramente che la storia di questa quattordicenne sia minimizzata come un “classico” caso di imposizione islamica su di una giovane donna? Cercando per un momento di allontanarsi da possibili pregiudizi o “comode” strumentalizzazioni, non sarebbe giusto interrogarsi anche sul ruolo che una mancata integrazione potrebbe aver avuto fra le possibili cause?
Stando ai fatti la ragazza è figlia di una famiglia originaria del Bangladesh residente a Bologna dal 2004, ha due sorelle di 15 e 17 anni, il padre è un meccanico di 40 anni rispettato in città. Giovedì scorso, scoppiando a piangere in classe, la ragazza avrebbe rivelato alle sue insegnanti di essere stata vittima delle ripercussioni dei suoi genitori per aver sovvertito le tradizioni della sua cultura con un comportamento ritenuto troppo occidentale. Secondo la versione dei genitori, invece, la vicenda del velo costituirebbe una menzogna e alla ragazza i capelli sarebbero stati rasati, essendo la stessa già ricorsa a tagliarseli dopo aver preso i pidocchi da alcuni compagni di classe. L’unica certezza è che la vicenda in una settimana ha messo in moto una serie di conseguenze che hanno comportato la decisione da parte della procura dei minori dell’Emilia-Romagna assieme agli assistenti sociali di allontanare la ragazza dalla famiglia e la denuncia dei genitori da parte dei carabinieri per maltrattamenti in famiglia. Dai racconti di persone vicine alla famiglia si evince l’immagine di una famiglia normale, documenti in regola, nessun precedente per maltrattamenti, nessun sospetto di radicalismo religioso, la stessa ragazza ha dichiarato di non aver subito maltrattamenti ulteriori a questo episodio. Infatti la realtà è molto più complessa, non tutto è bianco o nero. I genitori hanno sbagliato, questo è indubbio. In un’età vulnerabile come quella adolescenziale, rasare completamente i capelli alla propria figlia costituisce certamente un fatto grave, un possibile campanello d’allarme per una situazione di malessere vissuto dalla stessa, ma possiamo definirci certi che il nostro intervento sia stato veramente propizio nell’interesse dell’unica vera vittima di questa vicenda?
Ponendo che la ragazza sia stata effettivamente oggetto di una punizione per la trasgressione dei dettami della sua cultura, dei testimoni riferiscono di alcuni campanelli d’allarme. Professori e compagni di classe avrebbero testimoniato ai giornali altri episodi di tensione fra la ragazza e la sua famiglia, per la questione del velo ed il divieto di frequentare alcune compagnie. La domanda che allora sorge spontanea è: perché, se si era già al corrente di una situazione difficile, non si è intervenuti prima? Secondo la giornalista italo-pakistana Sabika Shah Povia la risposta è molto semplice: la verità è che non abbiamo ritenuto i genitori degni di un dialogo. La stessa ha dichiarato a The Post Internazionale che «La ragazza stessa avrebbe riferito ai servizi sociali di non essere mai stata picchiata da parte dei suoi genitori, che avevano i documenti in regola, non frequentavano la moschea regolarmente, non avevano mai avuto un problema con la giustizia (…) non sembra il ritratto di una coppia di fanatici musulmani senza cuore, a mio avviso, bensì due persone con cui ci si avrebbe potuto tentare di instaurare un dialogo. Quando, come in questo caso, il processo di integrazione non avviene o fallisce, è anche colpa nostra. I servizi sociali hanno a disposizione neuropsichiatri, psicologi, educatori e medici, ma mi chiedo, hanno un mediatore culturale? E se sì, ne hanno fatto uso in questa circostanza?». La figura del mediatore culturale, avendo una profonda conoscenza del paese d’origine dell’immigrato, probabilmente avrebbe agevolato la rimozione delle barriere linguistico-culturali, favorendo la relazione fra quest’ultimo e il contesto di riferimento.
L’educazione in cui si sono formati i genitori di questa giovane ragazza, è ben lontana da quella a cui siamo comunemente abituati, attribuisce alle loro parole un valore superiore a qualsiasi azione. Nel subcontinente indiano viene insegnato chiaramente che i genitori non si possono contraddire e la ripercussione psicologica che ciò può comportare sui figli, influenza molto le loro azioni. Si tratta di un circolo vizioso: come è probabile che la ragazza fosse discriminata in questo senso dalla sua famiglia, è anche credibile supporre che quest’ultima fosse oggetto delle medesime ripercussioni da parte di amici o familiari in Bangladesh. È difficile giudicare i meccanismi che posso essere innescati dal senso di colpa e vergogna nei riguardi della propria comunità di appartenenza, specialmente trattandosi di quella islamica, che purtroppo spesso si rivela estremamente rigida. La scorsa settimana dopo la discussione con i genitori, probabilmente la ragazza in lacrime si è semplicemente seduta e ha permesso che le fossero rasati i capelli per ragioni che difficilmente noi potremo mai comprendere. Sicuramente era doveroso e necessario tenderle un aiuto, ma effettivamente quest’aiuto doveva implicare l’allontanamento dal suo nido familiare? Questa stessa ragazza, proprio per la sua “colpa” di essere più occidentale delle sue sorelle, essendo allo stesso tempo molto legata alla sua cultura di origine, poteva essere una risorsa, un mediatore efficace tra due culture tanto lontane. Con l’aiuto offerto dall’appoggio di eventuali assistenti sociali, lei più di chiunque altro avrebbe potuto aprire il confronto con i suoi genitori, chiarendo ciò che non andava bene. Sarebbe stato adeguato probabilmente anche coinvolgere la comunità islamica di Bologna, che ha fermamente condannato le azioni dei genitori, dichiarandole non in linea con gli insegnamenti del Corano, i suoi membri avrebbero potuto aiutare la coppia a non imporre il velo alla figlia, parlando una lingua a loro più vicina. E se nonostante queste misure non si fossero ottenuti risultati allora sarebbero state veramente giustificate soluzioni più estreme.
Diana Avendaño Grassini
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