A 23 anni dalla sua morte, la Procura di Roma chiede l’archiviazione. I pm non ritengono possibile risalire al movente e agli autori del duplice omicidio della giornalista del Tg3 e dell’operatore Miran Hrovatin. Negate anche le prove di depistaggi nelle indagini.
«Dopo 23 anni non ci sono colpevoli» così il pm Elisabetta Ceniccola, magistrato che assunse la revisione del caso dopo che nel dicembre 2007 il gip Emanuele Cersosimo rifiutò di cessare le indagini, giustifica la sua firma per la richiesta di archiviazione del duplice omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, avvenuti il 20 marzo 1994 a Mogadiscio in Somalia. Nel provvedimento di circa 80 pagine firmato dal pm Ceniccola vi sono le risposte ai quesiti già posti all’epoca dal gip Cersosimo e l’indicazione degli elementi che dal primo momento hanno ostacolato lo sviluppo dell’indagine, primo fra tutti l’impossibilità di investigare in Somalia. Inoltre da quanto si apprende in esso sarebbe citata anche la sentenza della Corte di appello di Perugia che lo scorso 19 ottobre a conclusione del processo di revisione ha assolto l’unico condannato, il somalo Hashi Omar Hassan, dopo che quest’ultimo aveva già scontato 17 anni dei 26 previsti dalla sua condanna. Adesso che la procura di Roma chiude, con questa richiesta, l’inchiesta sui fatti di 23 anni fa, si attende la decisione del gip.
Alpi e Hrovatin furono uccisi in prossimità dell’ambasciata italiana a Mogadiscio a pochi metri dall’hotel Hamana, nel quartiere Shibis. I due erano di ritorno da Bosaso, città del nord della Somalia, dove Ilaria aveva avuto la possibilità di intervistare il sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, il quale riferì di stretti rapporti a partire dagli anni ottanta intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre. Dopo l’incontro con il sultano, la giornalista e il suo operatore avevano visitato dei pescherecci, ormeggiati presso la banchina del porto di Bosaso, sospettati di essere al centro di traffici illegali di rifiuti e armi trattandosi di mezzi inizialmente posseduti da una società di diritto pubblico somalo e poi illegittimamente divenuti proprietà personale di un imprenditore italo-somalo. Da tempo infatti le inchieste della giornalista si erano concentrate su di un possibile traffico di armi e rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e armi a sostegno dei gruppi politici locali, con la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni. Indagini che avevano coinvolto anche il caso del Moby Prince, il traghetto nel quale nel 1991 morirono bruciate 140 persone, sul quale la donna aveva cominciato a far luce scoprendo in terra somala alcuni collegamenti con la strage del porto di Livorno e questi traffici illeciti.
Il 18 Luglio il procuratore di Roma Franco Ionta formulò la richiesta di rinvio a giudizio a carico del cittadino somalo Omar Hashi Hassan, accusato di concorso in omicidio volontario aggravato: secondo l’accusa infatti egli era alla guida della Land Rover con a bordo i componenti del commando che uccise i due giornalisti italiani. Le accuse formulate a suo carico furono il frutto della testimonianza di Ahmed Ali Rage, detto “Gelle”, rivelatasi in seguito un falso. In cambio della testimonianza il somalo ottenne la promessa che avrebbe lasciato il paese africano, oggetto all’epoca di forti tensioni sociali. Non a caso proprio alla fine del ’97 il suddetto sparì dalla circolazione salvo essere rintracciato in Inghilterra tempo dopo dal programma televisivo Chi l’ha visto. All’inviata del programma, Gelle ammise di aver dichiarato il falso, ossia che non si trovava sul luogo del duplice omicidio e di aver accusato Hassan in quanto «gli italiani avevano fretta di chiudere il caso». L’evidenza delle anomalie legate alla gestione della testimonianza dell’uomo durante le indagini e dei presunti depistaggi nel corso delle medesime condusse ad un lungo processo di revisione del caso, con il rifiuto da parte del gip Cersosimo di archiviare le indagini nel 2007, nonostante le pressioni della Procura di Roma, e infine alla sentenza di Perugia dello scorso 19 ottobre, nel quale Omar Hassan ha visto finalmente riconosciuta la sua innocenza.
Non più tardi dello scorso marzo la madre di Ilaria Alpi, ormai rimasta sola dopo la morte del marito, aveva criticato aspramente l’operato dei giudici «Giustizia incapace, mi arrendo», era stato il suo sfogo, «d’ora in avanti mi asterrò dal frequentare uffici giudiziari, ma vigilerò contro ogni altro tentativo di occultamento». Dopo gli sviluppi di questi ultimi giorni la prima reazione è stata di vivo stupore. Per l’avvocato Domenico D’amati, legale della famiglia Alpi «Non è vero che non ci sono i moventi e le prove dei depistaggi, ce ne sono in abbondanza, non si vogliono leggere. La Procura, dopo lungo tempo ha detto che non ci sono gli elementi per richiedere il rinvio a giudizio quando tutti gli elementi emersi fino ad oggi indicano una responsabilità delle autorità italiane per come sono state condotte le indagini».
Diana Avendaño Grassini
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