Durante i cinque secoli che ci separano dalla scomparsa di oltre 15 milioni di Aztechi, la causa della loro morte ha da sempre rappresentato un eccitante mistero per i maggiori esponenti della scienza mondiale. Secondo le testimonianze dell’epoca, fu solo in seguito al contatto con i colonizzatori europei che gli indigeni cominciarono ad ammalarsi.
Una tragica fatalità che, forse, poteva essere evitata. Gli occidentali, infatti, potevano essere portatori sani di virus o di malattie sconosciute ai sistemi immunitari degli autoctoni, sovraesposti a un pericolo invisibile. Si stima che verso la metà del 500’ gli Aztechi rappresentassero circa l’80% della popolazione indigena del Messico. Per comunicare i propri malori gli indigeni utilizzavano la parola “cocoliztli”, cercando di proferire l’allarme di una pestilenza. Dalle descrizioni, febbre alta e sangue da occhi e bocca erano i principali sintomi. Contrarre la malattia implicava una morte certa in poco più di 3 o 4 giorni.
Solo lunedì 15 gennaio 2018, come riporta The Post Internazionale, un team di studiosi dell’Università di Tuebingen, è riuscito a risolvere l’enigma. Riesumando i cadaveri e analizzando il Dna dei denti di almeno 29 scheletri, gli esperti hanno individuato il genoma del batterio della salmonella (Paratyphi C) come origine dell’epidemia. Malattie come vaiolo, morbillo e influenza erano già state escluse precedentemente e così è stato possibile isolare, come principale causa, una febbre enterica sintomo di varie patologie fra cui il tifo. Ad oggi le probabilità di contrarla sono molto scarse, ma non sorprende la velocità con cui, all’epoca, si diffuse il virus, provocando una delle più gravi epidemie della storia, dopo la peste bubbonica del quattordicesimo secolo.
Sin dal Medioevo si attestano tracce della salmonella enterica in Europa. La sua diffusione nel Nuovo Mondo potrebbe essere avvenuta a causa di acqua e cibo infetti trasportati dalle imbarcazioni spagnole partite per viaggi di esplorazione. Le popolazioni indigene sarebbero state così contagiate da germi per loro letali. L’epidemia del 1545 causò all’incirca fra i 5 e gli 8 milioni di morti, subito dopo il primo arrivo dei colonizzatori. Più letale si rivelò però la seconda ondata del 1576-1578 che dimezzò la popolazione superstite dalla prima epidemia. I corpi morti, per cercare di limitare il dilagare della malattia, venivano immediatamente seppelliti in enormi fosse comuni. I medici dell’epoca cercarono invano di far combaciare i sintomi con mali loro conosciuti, come malaria e morbillo, ma ogni tentativo si rivelò vano. Ora finalmente il test del Dna ha dato le risposte tanto sperate, anche se gli scienziati avvertono che è possibile che altri patogeni siano ancora non identificabili sui corpi studiati.
Diana Avendaño Grassini
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