Se Francesca Alotta, duettando in Non amarmi con Aleandro Baldi, al «Dimmi perché piangi» di quest’ultimo risponde istintivamente «di felicità», medesimo facile riscontro non trovano tutti quei genitori che pongono la stessa domanda ai loro bebè. Per i neonati il pianto rappresenta l’unico modo per manifestare bisogni o malesseri più o meno rilevanti e, pertanto, deve essere accuratamente interpretato – come anche, e di conseguenza, placato – dagli adulti. Gli scienziati italiani, infatti, ritengono che piangere troppo sottragga ossigeno al sangue, con rischi per l’apparato neurologico, specie in bambini prematuri o di peso inferiore ai 2,5 chili. Traumi che possono poi causare ritardi nei livelli di attenzione e di apprendimento anche successivamente. A tal proposito, i pediatri consigliano di abbracciare i propri piccoli trasmettendogli affetto e di escogitare cosa fare, eventualmente contattandoli qualora lacrime e grida perdurassero troppo a lungo.
Soluzione a millenni di notti insonni trascorse a cullare per i corridoi piccoli bimbi singhiozzanti sembra però essere l’app, non a caso denominata Infant cries translator, lanciata dal National Taiwan University Hospital Yunlun. Fame? Sonno? Dolore? Pannolino bagnato? Basterà registrare dieci secondi di lamenti perché l’applicazione confronti la frequenza e la potenza delle onde sonore ricevute con quelle dei 200mila suoni presenti in archivio emessi da altri infanti. Dopo 15 secondi la risposta apparirà chiara sullo schermo dello smartphone di genitori alle prime armi. L’applicazione sembrerebbe avere un’attendibilità del 92% per i bimbi sotto un mese, dell’85% e del 77%, invece, per quelli rispettivamente sotto i due e i quattro mesi. L’attività tecnologica di traduzione dalla lacrima alla parola, di contro, non è più raccomandabile dopo i sei mesi, essendo le espressioni del bambino variabili in quanto fortemente influenzate dall’ambiente esterno. In quest’ultimo caso, non resta che armarsi di senso pratico, intuito, pazienza ed elevate doti empatiche, con la speranza in più che il piccolo impari presto a parlare.
Il pianto non è caratterizzante, tuttavia, solo dei neonati: secondo una ricerca dell’Università di Tilburg è il popolo italiano, a pari merito (o difetto?) con quello tedesco – secondi soltanto agli Stati Uniti – a essere il più piagnucolone. Nondimeno, mentre gli uomini, dopo l’adolescenza, lo vedono come segno di debolezza, imparando – o almeno così sostengono – a controllarsi, le donne, soprattutto in prossimità del ciclo mestruale (alcuni ritengono che tale concomitanza derivi dalla volontà di difendersi da aggressioni sessuali nel periodo di maggiore infertilità: il pianto sembrerebbe, secondo questa tesi, capace di diminuire il loro grado di attrazione agli occhi del sesso opposto), danno sfogo a tutta la loro emotività, piangendo in media dalle 30 alle 64 volte l’anno. E, a quanto pare, non cadrebbero neppure in errore, in quanto, secondo una teoria detta “del recupero”, il corpo, dopo un pianto liberatorio, ritroverebbe l’equilibrio più facilmente. Inoltre, le manifestazioni di tristezza, in relazione a uno studio parigino, possono aumentare il potere contrattuale in una discussione, rendendo più semplice il raggiungimento dei propri obiettivi durante la negoziazione. Nonostante ciò, i più solari rimangono comunque dell’idea che con le lacrime bisognerebbe proprio “piantarla”.
Concetta Interdonato
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