Dopo un acceso dibattito, ieri è stata approvata a maggioranza dal Parlamento europeo una risoluzione (non vincolante) che ha l’obiettivo di inserire l’aborto nella Carta dei diritti fondamentali. Al contempo, la risoluzione invita i Governi dei paesi membri a rimuovere gli ostacoli all’esercizio del diritto di aborto (come l’eccesso dei medici obiettori), a depenalizzare completamente l’interruzione di gravidanza (in linea con le linee guida 2022 dell’OMS) ed a non finanziare associazioni che fanno propaganda antiabortista. Si specifica che i voti a favore sono stati 336, quelli contrari 163 e le astensioni 39: hanno votato a favore tutti i componenti della Sinistra europea ed anche una buona fetta dei Popolari. Per quel che riguarda l’Italia, il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle hanno votato sì, mentre il centrodestra ha per la maggioranza votato per il no (con le eccezioni di tre eurodeputate: Alessandra Mussolini e Lucia Vuolo per Forza Italia, e Gianna Gancia per la Lega). Come si è anticipato, la risoluzione non è vincolante: per poter adottare il testo che andrebbe ad inserire l’aborto come diritto fondamentale nella Carta europea, è necessaria l’unanimità. A tal proposito, si evidenzia una frammentarietà europea sul tema: si va dalla Francia, che col nuovo Presidente del Consiglio Gabriel Attal ha inserito il diritto all’aborto nella Costituzione francese, a Paesi come Polonia, Ungheria e Malta, ove l’aborto è fortemente limitato, se non in alcuni casi del tutto vietato.
Entrando nello specifico, con la risoluzione si chiede che l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE venga modificato, inserendo l’inciso «Ognuno ha il diritto all’autonomia decisionale sul proprio corpo, all’accesso libero all’aborto sicuro e legale». Affinché ciò possa avvenire, al di là della risoluzione approvata, è necessario che tutti i Paesi votino all’unanimità, come si è anticipato. Ciò mette in luce come il percorso per rendere effettivo questo diritto sia ancora sormontato da ostacoli. Infatti, l’Eurocamera ha denunciato che, anche in Paesi in cui l’aborto è un consentito e salvaguardato (come l’Italia), la presenza dei medici obiettori di coscienza rischi di minare l’esercizio del diritto e la sua effettività; oltre a questo, l’Europa ha rilevato che vi sia una consistente crescita di associazioni antiabortiste in tutti gli Stati membri. Per questo motivo, il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione europea di «garantire che le organizzazioni che lavorano contro l’uguaglianza di genere e i diritti delle donne, compresi quelli riproduttivi, non ricevano finanziamenti dall’Ue».
La legge n. 194 del 1978, che regolamenta il diritto all’aborto in Italia, ha visto la luce a seguito di un lungo percorso. Prima del 1978, l’interruzione volontaria di gravidanza era considerata dal codice penale italiano un reato (art. 545 e ss. cod. pen., abrogati nel 1978). In particolare, causare l’aborto di una donna non consenziente (o consenziente, ma minore di quattordici anni) era punito con la reclusione da sette a dodici anni (art. 545), causare l’aborto di una donna consenziente era punito con la reclusione da due a cinque anni, comminati sia all’esecutore dell’aborto, sia alla donna stessa (art. 546), procurarsi l’aborto era invece punito con la reclusione da uno a quattro anni (art. 547), istigare all’aborto, o fornire i mezzi per procedere ad esso era punito con la reclusione da sei mesi a due anni (art. 548). In caso di lesioni o morte della donna le pene erano inasprite, ma nel caso in cui “… alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 545, 546, 547, 548 549 e 550 è stato commesso per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto, le pene ivi stabilite sono diminuite dalla metà ai due terzi.”. Il primo partito ad avanzare una proposta di legge per la regolamentazione dell’aborto fu il Partito Socialista Italiano nel 1973. Nel 1975, dopo l‘arresto del segretario del Partito Radicale Gianfranco Spadaccia, della segretaria del Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto (CISA) Adele Faccio e della militante radicale Emma Bonino per aver praticato aborti (autodenunciati alle autorità di polizia), prende piede un ancor più acceso dibattito (basti pensare al famoso scambio di opinioni intercorso in RAI, fra una giovane Emma Bonino e la democristiana Rosa Russo Jervolino). La battaglia fu condotta inizialmente dal Partito Radicale a cui si unirono successivamente i partiti laici, come il Partito Repubblicano Italiano e il Partito Liberale Italiano, i socialisti, gli aderenti al gruppo de il manifesto e infine il Partito Comunista Italiano. Rimasero isolati su posizioni antiabortiste la Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale Italiano. In questo clima, nasce la CISA, un organismo fondato da Adele Faccio: insieme a molte altre donne, si proponeva di combattere la piaga dell’aborto clandestino, creando i primi consultori in Italia e organizzando dei «viaggi della speranza» verso le cliniche inglesi e olandesi, dove grazie a voli charter e a convenzioni contrattate dal CISA, era possibile per le donne avere interventi medici a prezzi contenuti e con i mezzi tecnologicamente più evoluti. Nel 1975 dopo un incontro prima con Marco Pannella e poi con Gianfranco Spadaccia, il CISA si federava con il Partito radicale, e in poche settimane entrava in funzione l’ambulatorio di Firenze presso la sede del partito. Il 5 febbraio dello stesso anno, una delegazione comprendente Marco Pannella e Livio Zanetti, direttore de L’Espresso, presentava alla Corte di cassazione la richiesta di un referendum abrogativo degli articoli nn. 546, 547, 548, 549 2º Comma, 550, 551, 552, 553, 554, 555 del codice penale, riguardanti i reati d’aborto su donna consenziente, di istigazione all’aborto, di atti abortivi su donna ritenuta incinta, di sterilizzazione, di incitamento a pratiche contro la procreazione, di contagio da sifilide o da blenorragia. Dopo aver raccolto oltre 700 000 firme, il 15 aprile 1976 con un Decreto del Presidente della Repubblica veniva fissato il giorno per la consultazione referendaria, ma lo stesso Presidente Leone il primo maggio fu costretto a ricorrere per la seconda volta allo scioglimento delle Camere. Il 9 giugno 1977, fu congiuntamente presentata alla Camera dei deputati la proposta unificata di legge Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza da PSI, PLI, DP, PRI, PCI, PSDI e indipendenti di sinistra. Visto l’ampio sostegno di cui godeva, il testo non ebbe grossi problemi a superare il voto alla Camera. Il testo definitivo fu licenziato dal Senato il 18 maggio 1978, divenendo noto familiarmente come legge 194. La sua approvazione soppresse le fattispecie di reato del codice penale menzionate, tramite l’abrogazione degli articoli dal 545 al 555, oltre ad alcune norme dell’articolo 103 del T.U. delle leggi sanitarie.
Stefania Piva
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È nata e vive a Milano. È Avvocato, laureata in giurisprudenza all’Università Statale di Milano, ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato di Brescia, e si è specializzata presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università Statale di Milano. Da sempre appassionata di politica e giornalismo, ha scritto in precedenza per il giornale locale ABC Milano.