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La pesca italiana nella morsa di una crisi senza via uscita
24 Novembre 2016
BusinessAttualità

La pesca italiana nella morsa di una crisi senza via uscita

Home » Business » La pesca italiana nella morsa di una crisi senza via uscita

Si allunga la lista dei settori produttivi messi in ginocchio da una crisi economica congiunturale senza precedenti. Anche il mondo della pesca, così come quello del latte e di tanti altri ancora, fa la conta dei danni subiti e si lecca le ferite tra l’indifferenza generale di politica ed istituzioni.

Pesce-frescoTenendo a mente soltanto gli ultimi trent’anni, su 8mila chilometri di perimetro costiero le imbarcazioni sono diminuite del 33% (il che corrisponde alla perdita di 6mila barche in mare) e addirittura nella sola zona di Mazara del Vallo, in Sicilia, i pescherecci d’altura sono scesi da 400 a 80. Sono alcuni dei numeri che dànno un quadro esaustivo dei problemi in cui si imbattono quotidianamente gli operatori del settore, attualmente alle prese con una sorta di guerra tra poveri che sembra non risparmiare praticamente nessuno e in cui pescatori nostrani si sentono tagliati fuori per colpa del crollo delle quotazioni al ribasso del pescato, che ormai da anni dànno ragione alla concorrenza straniera. Tanto per fare un esempio, se nel 1988 il prezzo medio delle triglie si aggirava intorno alle 13mila lire al chilo (quasi 7 euro), adesso non supera i 4 euro, innescando l’aumento galoppante dei costi di produzione sui duecento punti percentuali. Nel frattempo, sono andate in fumo circa 18mila posizioni di lavoro in un settore che al giorno d’oggi sfama 27mila persone. Come se non bastasse, le nuove abitudini degli italiani in fatto di nutrizione di certo non aiutano la pesca a tirarsi fuori dalle sabbie mobili. Non è infatti un mistero che l’offerta sia molto inferiore alla domanda e che il consumatore medio prediliga il pesce spinato, sicuramente più semplice da cucinare rispetto alla vasta gamma di prodotti che offre il nostro mare, senza dimenticare che il 74% del pesce consumato in Italia è importato da Paesi come il Cile o le Filippine. Oltretutto, ci sono da un lato le regole dettate dall’Unione Europea, che hanno un peso non indifferente e che sembrano privilegiare l’acquacoltura, e dall’altro lato i danni provocati dalle attività di tipo intensivo sul delicato equilibrio dell’ecosistema marittimo, con alcune specie come le capesante che ne stanno facendo le spese e acque e fondali marini che man mano si stanno spopolando.

Queste le cause di una crisi senza fine che si intrecciano tra di loro in maniera pressoché inesorabile. C’è chi è convinto che i problemi si possano risolvere una volta per tutte seguendo l’esempio dell’agricoltura, puntando sulla vendita diretta dal produttore al consumatore, oppure prediligere la pesca artigianale con barche di piccole dimensioni e reti a maglie larghe. Esiste già qualche esempio virtuoso al riguardo, come i consorziati di vongolari di Fano e Cattolica, ma forse si tratta per lo più di eccezioni, mentre le soluzioni sarebbero da cercare altrove.

Gabriele Mirabella

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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