L’Afghanistan è, nuovamente sulla bocca di tutti. Da circa un decennio, ormai, non si parlava di quel fazzoletto di terra in medio oriente senza sbocchi sul mare. Un terreno arido, di fede per buona parte sunnita, tra la Cina, l’Iran e gli stati “Stan” dell’ex unione sovietica (Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Tajikistan e Pakistan). Conosciuto a livello mondiale dal 2001, da quel maledetto 11 settembre che cambiò la vita del mondo occidentale. Poi negli anni di occupazione NATO, con l’uccisione di Osama Bin Laden si pensava essere tutto un lontano ricordo. Ma l’avanzata degli ultimi 10 giorni e la presa finale di Kabul hanno fatto tornare il paese arabo in un’altra profonda crisi. Una crisi che affonda le sue radici addirittura negli anni ’70 e che proveremo a sintetizzare con ordine.
A inizio anni ’70, l’Afghanistan è una monarchia, rappresentata e governata da re Zahir Shah (succeduto a sua volta a Nadir Shah, che salì al potere grazie alle tribù Pashtù). Grazie a Zahir, il popolo afgano conobbe il più lungo periodo di stabilità della sua storia. 40 anni dal 1933 al 1973 in cui rimase neutrale, non partecipò alla seconda guerra mondiale, né si schierò nella guerra fredda. Una monarchia costituzionale, con un parlamento, il diritto allo studio garantito a tutti e il ruolo della donna sempre più emancipato.
40 anni interrotti dal 17 luglio del 1973. Re Zahir Shah si reca nell’isola di Ischia, a Napoli, per delle cure termali. Nel frattempo, il cugino ed ex Primo Ministro Mohammed Daud Khan organizza un golpe per prendere il potere. È la fine della monarchia, che fa spazio alla Repubblica. Viene inaugurato così un lungo periodo di instabilità e continui rovesciamenti di governo. Dopo appena 5 anni, infatti, il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), d’ispirazione marxista-leninista, rovescia il Governo Khan, dando vita alla repubblica democratica dell’Afghanistan. Il leader del partito è Mohammad Taraki, che mette in atto una riforma laica e comunista (quasi opposta a quella che sta avendo terra fertile in questi giorni).
Dopo appena un anno Taraki viene assassinato dal suo vice ministro. L’URSS, in un clima di forte tensione a causa della guerra fredda, non si fida del nuovo leader, accusato di intrattenere rapporti con gli Stati Uniti. Decide così di invadere l’Afghanistan per ristabilire una regione rossa nel proprio scacchiere. È solo l’inizio della fine.
Inizia dunque una guerra civile della durata di ben 10 anni. Da una parte abbiamo l’URSS e i sostenitori del Partito. Dall’altra i Mujaheddin, un altro nome tornato sulla bocca di tutti. Chi sono? Una coalizione eterogenea (quindi di diversi gruppi etnici), uniti sotto il nome dell’Islam con l’obiettivo di cacciare il blocco sovietico. Ricordando che siamo in piena guerra fredda questi combattenti vengono addestrati e finanziati dagli Stati Uniti, dal Pakistan e dai Sauditi. Tra questi ultimi ricordiamo anche Osama Bin Laden, che ai tempi, dunque, era uno degli alleati del blocco statunitense.
Dopo 10 sanguinosissimi anni i Mujaheddin (e dunque il blocco USA) vincono, costringendo i sovietici ad abbandonare definitivamente l’Afghanistan. Anche in questo caso si formalizza il potere con la presa di Kabul e nell’aprile del 1992 venne proclamato lo stato islamico dell’Afghanistan con Rabbani primo presidente. Nello stesso anno a causa della mancanza di un nemico comune, il fronte dei Mujaheddin si sfalda e inizia una nuova guerra civile tra il governo Rabbani (di etnia tagiki e uzbeka) e l’Hezb-i Islami, il partito di etnia Pashtun. Quest’ultima fazione, appoggiata dal Pakistan, perde e Rabbani rafforza ulteriorimente il proprio potere.
Entrano dunque in gioco gli attuali protagonisti del medio oriente, i talebani. Appoggiati sempre dai pakistani e guidati da Mullah Omar arrivano alla vittoria contro Rabbani dopo 2 anni di sanguinose battaglie. Corre l’anno 1996 e i talebani impongono all’intero Afghanistan la loro visione del mondo. Banditi i principali mass media (TV e radio su tutti), uomini obbligati a portare la barba lunga e incolta, nonchè di intrattenere rapporti solo con il sesso femminile. A tal proposito, le donne sono quelle che pagano maggiormente questa “rivoluzione”: negati istruzione, sport e lavoro. La possibilità di brevi passeggiate viene concessa solo se accompagnate, con il burqa e senza la possibilità di fare rumore mentre camminano, con l’obbligo assoluto di parlare con altri uomini e ridere.
Le punizioni per chi non rispetta questa visione estrema della shari’a, sono molto violente: amputazione degli arti, lapidazione in piazza, fucilazione e così via. L’emirato islamico dell’Afghanistan è appena nato e fa morti tra i suoi stessi fedeli. In quel lembo di terra non è mai e mai sarà una questione di Stato o di religione. Hanno molta più importanza, invece, le famiglie, le tribù, i gruppi etnici.
Salto temporale all’11 settembre 2001. L’attacco alle Torri Gemelle sconvolge il mondo occidentale e non solo. Il fatto viene rivendicato da Al Qaida, al cui comando c’è Osama Bin Laden (sì, proprio colui il quale, prima, finanziava i Mujaheddin insieme agli Stati Uniti), ospitato insieme ai suoi seguaci proprio in Afghanistan. Bush dichiara guerra e in pochi mesi i talebani vengono sconfitti dalle forze americane. Tuttavia non spariscono del tutto e anzi sono state tante le azioni sovversive di guerriglia lungo tutto il territorio che hanno colpito le forze scese in campo, tra cui anche militari italiani.
Per garantire maggiori diritti, l’emancipazione della donna e una parvenza di stabilità, per sventare un ritorno del regime dei talebani l’invasione NATO dura quasi vent’anni. Ma qualcosa, evidentemente, è andato storto.
Nel gennaio 2020 Donald Trump annuncia il ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan, così come di tutti gli alleati NATO. La misura viene poi attuata sotto l’amministrazione Biden che solo qualche settimana fa tuonava “i talebani non riconquisteranno l’Afghanistan!“. Le motivazioni di questa ritirata sono varie. Pressante era già da tempo la richiesta di oltre il 70% dei cittadini americani, che non vedevano più alcuna utilità in questa guerra (la più lunga della storia americana). Senza contare che miliardi di finanziamenti statali erano destinati a quest’occupazione che, prima o poi, doveva finire.
Il fallimento, allora, dove sta, se prima o poi gli Stati Uniti e più in generale le forze NATO avrebbero lasciato l’Afghanistan? Sta nel mezzo. Il fallimento si concretizza nelle condizioni in cui è stato lasciato l’Afghanistan e nella mancata preparazione delle truppe Afghane. Un governo corrotto, eletto in modo fraudolento e senza effettiva legittimità. Senza contare la totale dispersione dei finanziamenti occidentali (che finivano nelle tasche degli alti comandanti).
Un fallimento sia sul piano militare (un addestramento che ha fatto acqua da tutte le parti, anche per volontà di parte degli afghani stessi, poco inclini alle nuove direttive americane e NATO), che sul piano diplomatico.
Arriviamo dunque ai nostri giorni. Ai 10 giorni che hanno stravolto quel flebile equilibrio che stava dando una parvenza di normalità. Gran parte dell’Afghanistan era già in mano ai talebani già da giugno. Poi dal 6 agosto, pezzo dopo pezzo, cadono tutti i capoluoghi più importanti. Kunduz, Herat, Lashkar Gah e Kandahar. Poi il 15 Agosto Kabul, quando viene annunciato l’emirato islamico dei talebani. Nel mezzo un esercito di burro, incapace di reagire, spaventato e in fuga.
Quasi 100 miliardi di armamenti, oltre 300 mila militari a libro paga battuti da 40 mila talebani. Queste sono le cifre disastrose. Senza contare che, come detto, in Afghanistan conta più l’etnia dello Stato. E per il nome dello Stato, da quelle parti, (quasi) nessuno si ammazza. Comandanti e governatori Pashtun hanno preferito fuggire. Così come il presidente Ghani, adesso rifugiato o in Uzbekistan o in Tagikistan (le fonti sono molto discordanti). Zero resistenza da parte della stessa tribù degli attuali occupanti, quasi ovunque. I talebani hanno trovato praticamente un tappeto rosso lungo il loro cammino. E chi ha provato a contrastare questa repentina avanzata si è trovato poi bloccato dalle strategia avversarie.
Ultimi baluardi dell’esercito afghano (ammesso che ne sia mai esistito uno) i soldati dell’etnia tajiki del Panshir. Questa zona, a 150 km da Kabul, è l’unica per cui ancora non è stata registrata la resa. Ultimi baluardi che cercano di dare un senso a questi ultimi 20 anni di nulla.
Francesco Mascali
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Proprietario, editore e vice direttore di Voci di Città, nasce a Catania nel 1997. Da aprile 2019 è un giornalista pubblicista iscritto regolarmente all’albo professionale, esattamente due anni dopo consegue la laurea magistrale in Giurisprudenza, per poi iniziare la pratica forense presso l’ordine degli avvocati di Catania. Ama viaggiare, immergersi nelle serie tv e fotografare, ma sopra tutto e tutti c’è lo sport: che sia calcio, basket, MotoGP o Formula 1 non importa, il week-end è qualcosa di sacro e intoccabile. Tra uno spazio e l’altro trova anche il modo di scrivere e gestire un piccolo giornale che ha tanta voglia di crescere. La sua frase? «La vita è quella cosa che accade mentre sei impegnato a fare altri progetti»