Le recenti firme al minimo salariale di giocatori del calibro di Blake Griffin, LaMarcus Aldridge e Andre Drummond con le due principali favorite al titolo NBA, rispettivamente i Brooklyn Nets (i primi due) e i campioni in carica dei Los Angeles Lakers (l’ultimo), hanno fatto storcere il naso a numerosi appassionati di pallacanestro a stelle e strisce e alle franchigie di mercati minori. In molti chiedono alla lega di rivedere la norma che regola i buyout, ossia la possibilità di risolvere anticipatamente il contratto di un giocatore, che diventa unrestricted free agent e può accordarsi con chiunque al minimo salariale. Il mercato dei buyout si rivela spesso e volentieri oro colato per le contender, le quali si assicurano a prezzo di saldo giocatori che sul campo valgono ben più di un accordo annuale al minimo salariale.
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I Nets e i Lakers, che hanno a roster ben cinque dei migliori dieci giocatori della lega (LeBron e Davis per i losangelini, Harden, Durant e Irving per i newyorkesi), hanno fatto ricorso proprio al mercato dei buyout per rinforzare il proprio organico in vista dei playoff, assicurandosi tre dei giocatori più ambiti: due di questi, Griffin e Aldridge, liberatisi rispettivamente dai Detroit Pistons e dai San Antonio Spurs, hanno firmato con Brooklyn, mentre Drummond, risolto il proprio contratto coi Cleveland Cavaliers, ha scelto i Los Angeles Lakers. Tutti e tre avevano contratti a cifre importanti (36.5 milioni Griffin, 18.2 milioni Aldridge e 28.7 milioni Drummond).
I loro nomi erano sulle tracce di tante altre contender, tra cui i Los Angeles Clippers, i Boston Celtics e i Miami Heat, ma per Nets e Lakers non è stato poi così difficile battere la folta concorrenza, potendo mettere sul tavolo argomenti ben più convincenti rispetto alle rivali: i primi hanno un Big Three da urlo, a detta di molti il migliore della storia, mentre i secondi detengono il titolo e hanno un supporting cast di tutto rispetto attorno a LeBron James e Anthony Davis.
LA Dre has arrived ✌️ pic.twitter.com/AUKzUfJUDp
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Se è vero che i colpi di Nets e Lakers sono stati messi a segno anche e soprattutto con l’obiettivo di rinforzare il proprio organico (Drummond sarà il centro titolare dei gialloviola, con Harrell e Gasol che non hanno convinto del tutto, mentre Aldridge e Griffin offrono tante varianti tattiche a Steve Nash e aggiungono centimetri e fisicità a Brooklyn), è pur vero che le loro rivali sono state costrette a guardare sul mercato dei buyout, vedendosi costrette a ricorrere alle trade per migliorare il roster. Tra i free agents attuali, inoltre, c’è ben poco materiale e i profili ideali per le contender si contano sulle dita di una mano (su tutti, Austin Rivers, ma non è da meno DeMarcus Cousins).
Squadre come Nets e Lakers non hanno molte alternative per aggiungere nuovi tasselli. Avendo già raggiunto il limite del salary cap (LeBron e Davis guadagnano poco meno di 72 milioni di dollari in due, mentre Harden, Durant e Irving ne percepiscono poco più di 113 in tre), infatti, le due squadre possono ricorrere soltanto al mercato dei buyout per rinforzarsi senza dover rinunciare a pedine fondamentali. Gli americani, si sa, amano alla follia numeri e statistiche, anche e soprattutto in ambito sportivo, e non hanno esitato a mettere in evidenza il fatto che Durant, Harden, Irving, Griffin, Aldridge e Jordan vantino un totale di ben 43 convocazioni all’All-Star Game in carriera.
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Un dato che mette in evidenza lo strapotere dei singoli dei Nets, ma che al contempo lascia il tempo che trova: dei sei giocatori sopracitati, infatti, soltanto tre hanno ancora lo status di All-Star e sono stati convocati anche quest’anno per la partita delle stelle, vale a dire James Harden, Kevin Durant e Kyrie Irving, tutti e tre ben lontani dalla fase calante della propria carriera. L’ultima e unica apparizione di DeAndre Jordan all’evento risale addirittura al 2017, mentre Blake Griffin e LaMarcus Aldridge mancano dal 2019.
Oltre a ciò, i numeri e il rendimento di questi ultimi tre sono notevolmente calati rispetto agli anni d’oro delle rispettive carriere. In sostanza, non vi è alcun dubbio sul fatto che Griffin e Aldridge siano rinforzi di spessore per Brooklyn, che come tutte le contender ha estremo bisogno di veterani pronti all’uso, ma sostenere che i due spostino notevolmente gli equilibri significa mistificare la realtà dei fatti o tornare indietro di almeno un paio d’anni, quando i due incantavano a modo loro e mettevano in bella mostra tutto il meglio del loro repertorio tra Los Angeles Clippers e Detroit Pistons (il primo) e Portland Trail Blazers e San Antonio Spurs (il secondo).
Showing the new guy around. pic.twitter.com/J7QuHF5hZZ
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Per ciò che concerne i Lakers, il discorso non è poi così diverso. Drummond rappresentava un’occasione ghiotta, soprattutto dopo la trade sfumata per Kyle Lowry. Serviva un colpo che rispondesse alle firme importanti dei rivali dei Nets, ma soprattutto un giocatore in grado di sopperire all’assenza di un vero e proprio trascinatore sul parquet (LeBron e Davis sono ancora out per infortunio). Il classe ‘93 non è quel tipo di giocatore, ma la sua presenza indubbiamente rinforza i Lakers sia in questo finale di regular season che ai playoff: del resto, se Griffin e Aldridge partono dalla panchina a Brooklyn, Drummond sarà il centro titolare dei gialloviola fino a fine anno. I campioni in carica, dunque, non avevano estremo bisogno del classe ‘93, ma allo stesso tempo è innegabile che il suo arrivo rinforzi e non poco una squadra che fa della fisicità e della presenza a rimbalzo le sue armi principali.
Tra le tante critiche rivolte a Nets e Lakers “pigliatutto” non sono mancati attacchi a Kevin Durant, LeBron James e James Harden, in particolare al primo, accusato dai suoi haters (e non solo) di aver bisogno necessariamente di militare in un superteam per avere la chance di vincere un anello. Il riferimento è alla sua decisione di lasciare gli Oklahoma City Thunder per accasarsi ai Golden State Warriors di Stephen Curry, Klay Thompson e Draymond Green nell’estate 2016, poche settimane dopo aver perso le Finali di Conference con OKC proprio contro i californiani, reduci dalla miglior regular season della storia (record di ben 73 vittorie e appena 9 sconfitte). A Oakland, KD ha poi messo in bacheca due anelli in tre anni, in entrambi i casi da protagonista, tanto da ricevere il premio di MVP delle Finals sia nel 2017 che nel 2018.
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Le superstar, per un motivo o per un altro, finiscono sempre nell’occhio del ciclone e i loro traguardi vengono spesso e volentieri sminuiti. Il titolo vinto dai Lakers di LeBron e Davis lo scorso anno è stato da molti minimizzato, tra chi sosteneva che l’altra finalista, Miami, fosse un avversario piuttosto agevole e chi invece riteneva che i tanti mesi di stop forzato causato dalla pandemia di coronavirus avessero favorito i gialloviola, mentre Harden, dopo il passaggio ai Nets, è stato accusato di aver scelto la via più facile per lottare per il primo anello della sua carriera, ignorando quindi quanto fatto dal Barba nel corso dei suoi anni a Houston (in particolare nel 2018, quando al fianco di Chris Paul sfiorò l’impresa contro i Golden State Warriors in Finale di Conference, arrendendosi soltanto in gara-7 e giocando le ultime due partite della serie senza CP3, infortunatosi in gara-5).
La storia insegna che una squadra ben assortita attorno a un paio di campioni ha la strada spianata verso la conquista dell’anello e spesso i role players risultano molto più utili del previsto. Senza i suddetti campioni, però, vincere è molto difficile, se non addirittura impossibile: LeBron James ha vinto due dei quattro anelli conquistati in carriera grazie a due triple decisive che portano la firma di Ray Allen (gara-6 delle Finals 2013 tra i suoi Miami Heat e i San Antonio Spurs) e Kyrie Irving (gara-7 delle Finals 2016 tra i suoi Cleveland Cavaliers e i Golden State Warriors), ma Heat e Cavs sarebbero arrivati a quel punto senza poter contare su The King, pur disponendo entrambe di ottimi roster? Difficile, a tratti impossibile rispondere a questa domanda, anche perché si rischierebbe di allontanarsi troppo dalla realtà.
NBA, Los Angeles Lakers o Brooklyn Nets, chi è il più forte? I due roster a confrontohttps://t.co/KyCs9QwPc6
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Durant a Golden State era circondato da fenomeni, ma sia nel 2017 che nel 2018 segnò i tiri decisivi alle Finals e si accaparrò l’MVP. Nel 2019, invece, il suo infortunio fece sprofondare i suoi Warriors sul 3-1 in favore dei futuri campioni dei Toronto Raptors dopo quattro gare. Harden, invece, è arrivato ai Nets in punta di piedi, ma si è già preso la scena a suon di prestazioni da incorniciare, tanto da risultare ad oggi il miglior giocatore, per rendimento, di una squadra che può contare anche su Durant e Irving. La grandezza dei fenomeni sta proprio in questo: nel sapersi adattare a ogni cambiamento e, soprattutto, nell’avere la capacità di spiccare sempre e comunque.
Le aggiunte di Griffin, Aldridge e Drummond, dunque, migliorano sì i roster di Nets e Lakers, ma queste ultime se vorranno mettere le mani sul Larry O’Brien dovranno inevitabilmente affidarsi ai propri campioni: LeBron James e Anthony Davis da una parte, Kevin Durant, James Harden e Kyrie Irving dall’altra. Da loro, infatti, dipenderà il destino delle squadre guidate da Frank Vogel e Steve Nash, perché storicamente sono i campioni a rendere una squadra favorita per il titolo.
The Nets and Lakers both added some big name vets to their rosters.
Which possible closing lineup are you taking? pic.twitter.com/6afXNDPkqP
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Lo sanno bene anche e soprattutto gli stessi giocatori: Aldridge, Griffin e Drummond hanno scelto Nets e Lakers perché sanno di avere una concreta chance di vincere l’anello (o quantomeno di giocare le Finals) al fianco di fuoriclasse del calibro di Harden, Durant, Irving, LeBron e Davis. Se avessero firmato con una qualsiasi altra contender, la loro decisione avrebbe fatto tanto rumore? Probabilmente no, perché non è il loro valore attuale sul parquet a far balzare tutti dalla sedia, bensì il fatto che andranno a giocare al fianco dei suddetti fenomeni e al contempo non rinforzeranno le squadre rivali.
Dennis Izzo
Fonte immagine in evidenza: Forbes.com
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Coordinatore editoriale di Voci di Città, nasce a Napoli nel 1998. Tra le sue tanti passioni figurano la lettura, i viaggi, la politica e la scrittura, ma soprattutto lo sport: prima il calcio, di cui si innamorò definitivamente in occasione della vittoria dell’Italia ai Mondiali 2006 in Germania, poi il basket NBA, che lo tiene puntualmente sveglio quasi tutte le notti da ottobre a giugno. Grazie a VdC ha la possibilità di far coesistere tutte queste passioni in un’unica attività.
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