Quella che si è da poco conclusa è stata una delle stagioni di NBA più controverse e al contempo intriganti degli ultimi anni: stavolta i Golden State Warriors ce l’hanno fatta (come accaduto due anni fa) a conquistare il titolo – il secondo negli ultimi tre anni – ai danni dei Cleveland Cavaliers di LeBron James e compagni, cancellando la bruciante sconfitta in rimonta subita un anno fa. È un trionfo dalle molteplici sfaccettature quello della franchigia di Oakland, di cui una su tutte ha come protagonista Kevin Durant, che dopo tanti anni trascorsi a inseguire l’anello è finalmente riuscito ad accaparrarselo e ad uscire dalle NBA Finals col sorriso sulle labbra di chi ha raccolto i frutti di tanto impegno e lavoro intenso, passando momenti bui ma con la consapevolezza che prima o poi sarebbe tornato a splendere il sole.
KD ha dovuto assaporare il gusto amaro della sconfitta ben tre volte in finale di Conference e in un’occasione nelle finali NBA, non riuscendo a coronare il tanto agognato obiettivo di conquistare il Larry O’Brien Trophy con gli Oklahoma City Thunder, nonostante abbia formato un più che promettente trio con James Harden e Russell Westbrook e, successivamente, un duo di superstars con quest’ultimo, in virtù del passaggio di The Beard alla corte degli Houston Rockets. Durant ha a lungo inseguito il titolo, lo ha accarezzato e ne ha fantasticato talmente ossessivamente la vittoria che non è stato facile fare i conti con la brutalità della realtà. Nel 2012 OKC ci è andata davvero vicina, ma contro una squadra del calibro dei Miami Heat, forti del Big Three composto da LeBron James, Dwyane Wade e Chris Bosh, c’è stato poco da fare ed è risultato di fatto impossibile evitare il pesantissimo 4-1 finale nella serie.
Non è andata meglio negli ultimi anni, con la possibilità di vincere il titolo che è sfumata spesso e volentieri sul più bello, in una vera e propria sorta di inseguimento vano e fallimentare da parte della talentuosa ala piccola di Washington che ricorda quello di Wile E. Coyote nei confronti di Beep Beep, i due protagonisti del noto cartone animato della Warner Bros. in cui il primo elabora ingegnosi e apparentemente infallibili tentativi per catturare la sua preda, il Road Runner, vedendo sempre sfumare il suo obiettivo. L’ultima volta in cui Durant è stato costretto a rimandare nuovamente il suo sogno è stata l’anno scorso, in occasione della finale di Western Conference persa proprio contro i Golden State Warriors: il 28 maggio alla Chesapeake Energy Arena di Oklahoma, OKC ha la possibilità di chiudere la serie sul 4-2 e staccare il pass per le NBA Finals, per quella che sarebbe un’impresa tanto leggendaria (i Golden State avevano ottenuto un incredibile record di 73 vittorie e appena 9 sconfitte in regular season) quanto meritata, in virtù del netto dominio dei Thunder nelle precedenti cinque sfide.
A sorpresa, però, un super Klay Thompson e il solito Stephen Curry trascinano la franchigia californiana all’insperato pareggio, che si sarebbe poi tramutato in vittoria e conseguente passaggio in finale appena due giorni dopo all’Oracle Arena di Oakland. A pesare sull’esito di gara-6 è anche e soprattutto il rendimento sottotono di Kevin Durant, autore di una prova piuttosto opaca che, a conti fatti, segna la fine del suo rapporto professionale con i Thunder. Finito tra i free agent, KD ascolta e valuta le tante proposte che gli arrivano e il 4 luglio comunica la sua decisione di accordarsi proprio con i Golden State Warriors, una scelta che ha fatto a lungo discutere non soltanto in quel di Oklahoma. Appresa la tragica (sportivamente parlando) notizia del trasferimento di Durant ai rivali californiani, il suo ex compagno di squadra Russell Westbrook ha preparato i cupcakes ed ha postato le foto sul suo profilo Instagram (con il termine «cupcake» nello spogliatoio dei Thunder ci si riferisce a qualcuno che volta le spalle alla causa di OKC).
Alcuni hanno addirittura asserito che la scelta di KD avrebbe rovinato lo spettacolo e l’equilibrio della lega cestistica statunitense, ma al di là delle varie teorie che hanno provato a dare un senso logico alla decision più controversa degli ultimi anni – insieme a quella di LeBron James di lasciare Cleveland per trasferirsi a Miami nell’estate 2010 – la verità è inevitabilmente soltanto una: Durant è un professionista ed ha scelto con buonsenso e consapevolezza, sapeva benissimo che un percorso del genere gli avrebbe comportato critiche feroci e che il suo nome sarebbe stato preceduto o succeduto dalla poco gratificante etichetta di «traditore», ma ha pensato al prosieguo della sua carriera e, soprattutto, a quel tabù da sfatare, quell’ossessione eterna chiamata titolo NBA e non ha esitato a firmare con i Golden State. A influire sulla sua scelta è stato anche l’ala grande dei Warriors Draymond Green, che ha contribuito a convincerlo illustrandogli nel dettaglio il meglio di casa Golden State, e l’ex stella NBA Jerry West, attualmente consulente della franchigia californiana.
I Golden State sono ormai da anni contraddistinti da un meccanismo di gioco ben strutturato, ma con l’innesto di Kevin Durant sono diventati una macchina perfetta, che non conosce difetti e che soprattutto ha benzina in quantità industriale nel suo motore e viaggia a una velocità a dir poco supersonica. Steve Kerr ha trovato il tassello mancante per il suo mosaico, la figurina che gli mancava per completare l’album delle figurine delle stelle dei suoi Warriors, l’ultimo pezzo del puzzle, l’ingrediente perfetto per rendere ancor più squisita e appetitosa la sua ricetta: insomma, l’arrivo di KD in California ha influito in positivo sull’intera squadra, ridando certezze e stimoli a una squadra sì forte, devastante e quant’altro, ma non ancora perfetta e inarrestabile prima dell’arrivo dell’ex OKC. Il resto è storia, con il classe ’88 che è stato accolto alla grande in quel di Oakland ed ha trovato nell’infinito affetto mostratogli dai suoi nuovi compagni e tifosi l’antidoto perfetto per lasciarsi alle spalle il passato e guardare con fiducia al presente e al futuro.
Il ragazzo che aveva visto nascere gli Oklahoma City Thunder e che nella notte del Draft 2008 aveva stretto la mano al suo futuro compagno di squadra Russell Westbrook è ormai diventato un uomo e il suo processo di crescita dal punto di vista tecnico è proseguito di pari passo con quello morale, ossia in maniera brillante e impeccabile. L’ingranaggio Durant si è incastrato a meraviglia nella macchina dei Warriors e del sempre ottimo rendimento di KD – che ha chiuso la regular season con una media di 25,1 punti, 8,3 rimbalzi e 4,8 assist e i playoff con 28,5 punti, 7,9 rimbalzi e 4,3 assist di media – hanno beneficiato anche i suoi compagni, dai titolarissimi Curry, Thompson e Green alle riserve di lusso Iguodala e Livingston. Durant, inoltre, è risultato il migliore per punti dei suoi (32) in gara-1 del primo turno dei playoff vinto 4-0 contro i Portland Trail Blazers, per poi ripetersi in gara-3 delle semifinali di Conference vinte con lo stesso risultato contro gli Utah Jazz, in cui ha messo a referto 38 punti ed ha primeggiato anche per ciò che concerne i rimbalzi (13), dopo gli 11 totalizzati nella precedente gara-2. Riuscirà nell’impresa anche in gara-4 delle semifinali con i San Antonio Spurs (12 rimbalzi) e in gara-3 (10), in cui risulterà anche il migliore per punti (33).
Il genio inesauribile di Kevin Durant si è però scatenato (stavolta sì, finalmente!) nelle NBA Finals, in cui al cospetto del rivale in campo ed amico fuori LeBron James ha sfoderato una serie di prestazioni da cineteca, propiziando il netto successo per 4-1 dei suoi rispettivamente con 38, 33, 31, 35 e 39 punti, numeri pazzeschi che gli valgono il riconoscimento di MVP delle finali, anche se la vera ciliegina sulla torta resta la vittoria del titolo. Durant ha finalmente svestito i panni dell’inseguitore e si è scrollato di dosso l’etichetta di «eterno secondo» nel migliore dei modi, dimostrando il suo enorme potenziale sul parquet e gettando il cuore oltre l’ostacolo per raggiungere un’impresa degna di un grande campione, dentro e fuori, come lui. La sua storia è di quelle che emozionano a prescindere dal contenuto, perché hanno come protagonista un lottatore vero, che ha incontrato innumerevoli ostacoli lungo la sua strada ma ha saputo cogliere il meglio da problemi, intoppi, critiche e sconfitte. E, alla fine, ce l’ha fatta.
Dennis Izzo
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Articoli di proprietà di Voci di Città, rilasciati sotto licenza Creative Commons.
Sei libero di ridistribuirli e riprodurli, citando la fonte.
Coordinatore editoriale di Voci di Città, nasce a Napoli nel 1998. Nel 2016 consegue il diploma scientifico e in seguito si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli. Tra le sue tanti passioni figurano la lettura, i viaggi, la politica e la scrittura, ma soprattutto lo sport: prima il calcio, di cui si innamorò definitivamente in occasione della vittoria dell’Italia ai Mondiali 2006 in Germania, poi il basket NBA, che lo tiene puntualmente sveglio quasi tutte le notti da ottobre a giugno. Grazie a VdC ha la possibilità di far coesistere tutte queste passioni in un’unica attività.
“Se c’è un libro che vuoi leggere, ma non è stato ancora scritto, allora devi scriverlo.”