Secondo i dati rilevati dal rapporto annuale dell’ UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), pubblicato il 18 giugno scorso, sono quasi 60 milioni le persone che a causa di guerre e persecuzioni sono costrette a fuggire dal loro Paese; un numero, quello dei rifugiati che si contano oggi nel mondo, che potrebbe benissimo corrispondere alla popolazione di un’intera nazione (il Regno Unito, ad esempio, conta circa 65 milioni di abitanti). Continuando a parlare di numeri e statistiche, un altro rapporto, pubblicato dall’ONU, rileva che negli ultimi due anni il numero dei migranti rispetto alla popolazione mondiale è cresciuto del 50 per cento; tale aumento è dovuto in parte alla crisi economica globale, ma soprattutto alle guerre in Siria, Libia, Ucraina, Nigeria e Somalia (tra le altre) che dal 2014 ad oggi stanno decimando popolazioni, distruggendo interi Paesi e mettendo in seria difficoltà l’UE, del tutto impreparata all’ “emergenza rifugiati”, cui si trova costretta a far fronte.
Dal canto suo l’Italia, per via della collocazione limitrofa alle coste africane, si ritrova ancora una volta ad essere la destinazione principale per i migranti libici e siriani, ma soprattutto per eritrei, somali e sudanesi che fuggono dal Corno d’Africa. Di fronte al numero sempre maggiore di profughi giornalmente in arrivo che chiedono asilo al nostro Paese, si parla di “emergenza migranti” e, forse ingiustamente, si gioca allo scarica barile accusando l’Europa di non fare abbastanza: l’operazione Mare Nostrum, di cui l’Italia si è assunta la responsabilità dal 18 ottobre 2013, non può più essere sostenuta contando solo sulle forze italiane, ma occorre che l’UE collabori di più. Dal canto suo però, Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea) ribatte con decisione che il problema è tutto italiano, in quanto sembra essere il nostro l’unico tra i Paesi comunitari quello a sottovalutare ancora l’immigrazione: «gli altri Paesi si preoccupano di tutelare le loro frontiere». Una constatazione, quella di Frontex, che lascia spazio alle più svariate interpretazioni, in quanto la tendenza di diversi Paesi europei (Francia, Spagna e Germania in primis), è di natura oppositiva all’accoglienza, seppur non proprio pubblicamente . L’Ungheria, governata dal controverso premier Viktor Orbán, sovente accusato di autoritarismo e violazione dei diritti umani, ha persino programmato la costruzione di un muro al confine con la Serbia, per impedire l’ingresso di migranti in territorio ungherese; la Bulgaria, che nel 2014 ha costruito una barriera simile con la Turchia, ha intenzione di ampliare la stessa. Infine, anche il Kenya ha recentemente dichiarato che intende erigere una barricata al confine con la Somalia per impedire sia il passaggio dei militanti di Al Shabaab sia quello dei migranti somali.
In sintesi, scarica barile tra Italia ed Europa e muri che sorgono lungo i confini: in un simile scenario di confusione politica e sociale, viene da chiedersi da che parte sta la ragione nella querelle che divide l’opinione pubblica tra coloro che vorrebbero dimostrare comprensione ed ospitalità, e quelli che, invece, mantengono con durezza la posizione del “sarebbe meglio rispedirli a casa loro”. Ed è proprio su quest’ultima affermazione che bisognerebbe soffermarsi un tantino di più, andando oltre cifre e questioni politiche per cercare di far chiarezza su uno dei punti che forse, presi come sono dall’esprimere il proprio pensiero al riguardo, la maggior parte dei cittadini europei hanno finito (chi più chi meno volontariamente) per tralasciare: chi sono questi migranti che “invadono” le nostre coste, da dove vengono, da cosa fuggono? Sono davvero un pericolo per i Paesi a cui chiedono asilo? O sono loro ad essere in pericolo?
Le risposte sono numerose quanto i rifugiati a cui potremmo chiederle, i Paesi dai quali fuggono e le storie che ognuno di loro potrebbe raccontare. Se provassimo a domandare ad un migrante che arriva dall’Eritrea, la cui popolazione, stando alle stime dell’Unhcr, rappresenta la più alta percentuale dei rifugiati arrivati in Italia, ci risponderebbe che fugge da uno “Stato prigione”. Dal 1993, infatti, il Paese è sotto la crudele dittatura di Isaias Afewerki, tiranno che ha dato vita nel Corno d’Africa ad un regime simile a quello della Corea del Nord. «In Eritrea, uomini e donne dai 17 anni in poi sono soggetti al servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato», spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, « A nessuno è consentito avere un passaporto prima dei sessant’anni e chi tenta di scappare dal Paese è punito con la morte; tutte le libertà civili e qualunque libertà di espressione sono negate ».
Gli uomini, le donne e i ragazzini che fuggono dalla Siria invece, cercano di lasciarsi alle spalle la guerra civile che ha sconvolto il Paese e di sottrarsi al folle controllo dell’Isis, che occupa il territorio siriano ormai da diversi mesi. La popolazione somala, poi, fugge dalla povertà (la Somalia è uno degli stati più poveri del mondo, tanto che dipende quasi totalmente dagli aiuti umanitari); inoltre il Paese, che si ritrova intrappolato nella rete terroristica del gruppo jihadista Shabaab, ha fama di essere pure uno dei meno sicuri al mondo in cui mettere al mondo un figlio. Gli oltre 4 mila rifugiati giunti in Italia dalla Nigeria sono fuggiti dalle devastazioni operate dalla militanza islamica Boko Haram che, nel 2009, ha scatenato una guerra per l’islamizzazione della Nigeria non ancora conclusa, mentre chi arriva dal Senegal, cerca di mettere distanza tra sé ed una violenta guerra civile per l’indipendenza della regione del Casamance. I sudanesi fuggono dal conflitto controil proselitismo forzato del Paese, mentre il popolo del Mali cerca una via di fuga per sopravvivere alle azioni violente dei Toureg provenienti dalla Libia, che hanno dichiarato guerra al governo e tendono ad eliminare con la forza chi osa ribellarsi al loro dominio. Un elenco di orrori, violenze e tragedie, situazioni limite e violazioni dei diritti umani di cui, probabilmente, la maggior parte dei rifugiati giunti in Italia, soprattutto quelli più giovani nati quando guerre e dittature avevano già sconvolto il loro Paese, non hanno mai goduto: questi sono i migranti pericolosi che non accettiamo, queste sono le situazioni critiche dentro cui vorremmo che restassero, in terre dilaniate dalla guerra e dalla povertà, dal dominio di piccole fazioni estremiste che conoscono la ferocia come unico “mezzo di comunicazione”.
Durante il World Refugee Day, La Giornata Mondiale del Rifugiato celebrata il 20 giugno scorso, l’unica grande manifestazione pubblica alla quale si è assistito è stata quella dell’indifferenza dettata dalla paura verso “estranei” dei quali non conosciamo le storie e non comprendiamo la cultura e, per questo, vediamo come invasori minacciosi di un Paese che definiamo “nostro”: in realtà sarebbe bastato fare un piccolo sforzo d’umanità, più che d’accettazione, per ridare la dignità che meritano a quelli che, prima di essere rifugiati, migranti o profughi, sono soprattutto esseri umani.
Simona Raimondo
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