«Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco». Le parole per raccontare “Barbie, the Icon” sembrano provenire da una penna ben più saggia di quelle dei nostri tempi. Si tratta di una mostra allestita prima al “MUDEC” di Milano e dal 15 aprile approdata al “Complesso del Vittoriano” di Roma, dove rimarrà visitabile fino al 30 ottobre 2016.
ROMA – L’occasione dedicata alla figura di Barbara Millicent Roberts, meglio conosciuta come Barbie, permette di vedere, dietro a lunghe teche di plexiglas, le protagoniste dell’evento in piedi, impettite, come fossero tante hostess in fila ad una convention, quando si tratta, invece, di decine e decine di bambole vestite nei modi più disparati, che mostrano con ghigno pietrificato il loro impeccabile outfit. Dall’altro lato stanno altrettante decine di bambine, che pigiano coi pollicioni sulle teche e corrono qua e là, trafelate, trascinandosi dietro madri altrettanto entusiaste (e nostalgiche) e padri pigri, con borse e passeggini, che si aggirano fra i corridoi della mostra, coi musi più o meno rassegnati.
Il mondo di Barbie è semplice ed è fatto prevalentemente di accessori. Oggetti banali, raffinatamente riprodotti e perciò, in un certo qual senso, sublimati. Dal canto suo, Barbie, oltre ad essere un biondina ben vestita, è oltre ogni misura un’accumulatrice seriale, nonché una sofisticata scalatrice sociale. Non a caso, è in assoluto la bambola più venduta al mondo, e nel corso della sua storia, ha intrapreso ben 78 carriere lavorative: è stata oculista, insegnante di spagnolo, ingegnere elettronico, ginnasta olimpionica, fotografa, ha preso il brevetto di volo e, come se non bastasse, è stata assunta dalla NASA come astronauta. Un curriculum davvero notevole per una ragazza uscita con un semplice titolo di studio dal Willows High School, nel Wisconsin. L’ambizione l’ha poi portata a candidarsi addirittura alle elezioni presidenziali della White House, il tutto senza mai avere il trucco sbavato e senza perdere il suo garbo, il suo cortese sorriso e il visetto sbarazzino, o incorrere nella tragedia delle bingo wings, nome tecnico per le volteggianti ali di grasso adiposo sotto gli incartapecoriti bicipiti delle anziane giocatrici di bingo. Mai una ruga, mai una smorfia o un capello fuori posto: tutto, ma proprio tutto, è sempre stato dove e come doveva essere.
«Life in plastic it’s fantastic», non c’è altro da aggiungere. C’è, però, da chiedersi se davvero tanti plotoni di piccole donne desiderino essere come lei. Uno studio condotto dalla dottoressa Agnes Nair della Università di Bath nel Somerset dimostra infatti, con una ricerca condotta su 100 bambine, come ad una certa età le acquirenti del prodotto manifestino apertamente un perverso e sadico impulso nei confronti della loro migliore amica d’infanzia, che le spinge a torturarle: tosatura forzata, mozzamento di arti, decapitazioni, roghi di massa, impiccagioni di gruppo e addirittura microwaving (che consiste nell’inserire la bambola nel forno e farla sciogliere) sono viziose attività definite «cool» dalle bimbe inglesi e praticate, secondo la Nair, come fossero un rito di passaggio, in una fase evolutiva di rifiuto nei confronti di chi è sempre bella e perfetta e, alla lunga, scoccia un po’. In tale meccanismo, quindi, c’è forse da rivedere qualcosa e a farlo dovrebbe essere proprio la MATTEL©, la società produttrice di bambole in serie che ha un fatturato annuo di 6,48 miliardi di dollari. Perché l’effetto di queste fashion dolls, più che essere quello di regalare la possibilità di immaginare e vivere tutto ciò che si sogna da piccoli, parafrasando le parole dell’inventrice Handler, risulta essere piuttosto l’effetto ricercato da un’altra fanciulla ben più malvagia e antica, la Vergine di Norimberga, che rinchiudeva nel suo sarcofago di chiodi aguzzi i propri miseri condannati
Diventa grottesco e un po’ triste, infatti, osservare per le gallerie del Vittoriano torme di galoppanti ragazzotte intutate e tallonate dai genitori che, come in preda al delirium tremens, fotografano con i propri smarthphone ogni posa, ogni costume e ogni accessorio, e scalpitano e strepitano per avere in mano Lei, la plastificata belle dame sans merci. Vorrebbero essere come Lei, ma, per una qualche crudele ragione, non possono. Hanno in mano la bellezza, eppur non la possiedono mai. La domanda, a questo punto, sembra sorgere spontaneamente: perché sottoporsi volontariamente a questo feroce e impossibile sforzo collettivo di emulazione? Adorno sembra avere risposto con lucidità all’argomento, spiegando nel suo Kulturindustrie che tale sforzo a nient’altro serve se non a «fare di sé stessi l’apparecchio adatto al successo, conforme, fino ai moti più istintivi, al modello presentato dall’industria culturale». Tuttavia, rimane da sciogliere anche un’altra questione ben più complessa, ovvero: perché un museo di tutto rispetto, anziché aprirsi alle opere di artisti emergenti, lascia che i suoi spazi vengano invasi da biondine plastificate?
Questa domanda rimane tuttora senza risposta, anche se la mostra, dopo aver proiettato per i visitatori su muri a tinte rosa alcune frasi di celebri stilisti che, commentando i successi della sessantenne bimbetta occhi dolci («Barbie è un’icona glamour, con un guardaroba sterminato, una casa da favola e un sacco di amici simpatici. Come non amarla?», scrive Peter Sam, come se simili elementi bastassero per innamorarsi di qualcuno), si lasciano trasportare da veri e propri momenti di estrema poeticità («Barbie è un simbolo di vita», a detta di Christian Lacroix, a cui rispondono Philip e David Blond con un «Barbie, come un diamante, è eterna»), si conclude svelando forse quel che è il suo unico motivo d’essere accogliendo tutti gli astanti nello shopstore.
Nel frattempo, una volta esperita sulla propria pelle la celebre Sindrome Di Stendhal – perché, al cospetto di cotanta bellezza platinata, vertigini e confusione sono forse i mali minori che si presentano – non si può che chiosare con il diktat messo in circolo dal Comitato per la propagazione della Virtù e la prevenzione del diritto in Arabia Saudita, che recita: «La Barbie è il simbolo della decandenza del perverso Occidente […]. State in guardia da lei».
Niccolò Fettarappa Sandri
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