Dal 12 settembre, è disponibile su Netflix il film Sulla mia pelle, il quale racconta gli ultimi 7 giorni di Stefano Cucchi, il 31enne morto nel 2009 all’ospedale Sandro Pertini di Roma per cause non ancora confermate in via definitiva. Nonostante sia un contenuto visibile in streaming, la distribuzione è stata aperta ad alcuni cinema selezionati, tanto da esser stato presentato alla mostra del cinema di Venezia e sottoposto alla visione degli occhi attenti della grande critica. Il regista è Alessio Cremonini, mentre il protagonista è interpretato da Alessandro Borghi. In molti avranno sentito parlare di questo film già da giorni, non solo per la storia che racconta, ma perché, in quanto film, merita semplicemente di essere visto. E in questo articolo proveremo a spiegare il perché.
Non vi è alcuna esaltazione drammatica della vicenda, ma non si parla neanche un film di aperta denuncia, pianti e violenza. Sulla mia pelle, infatti, è stato apprezzato anche e soprattutto per il suo distacco. Non è un caso che la critica abbia ammirato il prodotto proprio per il modo in cui è stata raccontatauna vicenda ormai nota. Siamo davanti a una cronistoria, ricostruita quanto più fedelmente agli avvenimenti realmente accaduti: il caso Cucchi, in poche parole, esce da dieci mila pagine di verbale, dalle documentazioni e dalle testimonianze per concretizzarsi in immagini tangibili. Se non lo si conosce ancora (per quanto sia difficile non conoscerlo, dopo quasi 10 anni), non è necessario informarsi prima di vedere il film: sarà il film stesso ad aprirvi le porte di questa storia.
Il rischio che il desiderio di giustizia uscisse del tutto era altissimo. Cremonini, invece, è stato bravo ad andare oltre. Ogni eccesso è stato evitato, così come ogni accusa di parte. Sulla mia pelle racconta ciò che è documentabile e ricercabile da chiunque, tanto che proprio il fatto su cui tutto ruota non è stato ripreso da alcuna telecamera. Per farla breve, non si vedranno le scene del pestaggio: il film si ferma sul ciglio della porta, come se non volesse entrare nel merito di una vicenda non ancora chiarita in un’aula di tribunale. Ecco perché non siamo davanti a un attacco contro l’arma dei carabinieri, ma neanche di fronte a una santificazione del deceduto Stefano Cucchi.
Nonostante ciò, se ancora non si è riusciti a vederlo, bisogna prepararsi a un mix di emozioni senza precedenti; primo fra tutti il dolore che lo stessi Cucchi ha provato in quei 7 giorni. È un dolore reale, mostrato in maniera fredda e raccapricciante. Dall’arresto in via Lemonia, alle stazioni Appia, Casilina e Tor Sapienza, fino al letto in cui ha trovato la morte. 100 minuti carichi di una rabbia straziante, capaci di far venire un nodo in gola senza che venga pronunciata una sola parola. Sono sentimenti prodotti da indifferenza, ingiustizia e un’omertosa violenza; come se si entrasse, per quanto realmente impossibile, nella mente di in un ragazzo che ha patito tutto ciò. Tuttavia, meglio non illudersi, poiché questa è solo una minima parte di quelle reali sensazioni. Perché tutto quello che vedrete è la cruda realtà, verificata e documentata, di ciò che è accaduto, per quanto possa sembrare solo la trama di un film ben congegnato.
Infine, c’è l’applauditissimo Alessandro Borghi. Basta notare le differenze tra il ruolo interpretato e l’attore (nelle sue vesti normali) per capire quanto sia stato complesso calarsi in una parte del genere. E non si parla solo del taglio di capelli, del volto scavato o di quei 20 chili che ha perso per interpretare il giovane Cucchi: sono le espressioni, le (poche) battute e il dolore che si legge nei suoi occhi a trascinare nel peso insormontabile di quei 7 giorni. Doveva essere solo un film capace di dar voce e suoni agli ultimi 7 giorni di Stefano Cucchi. Che lo si veda in una sala cinematografica o nella propria camera da letto, si resterà ugualmente esterrefatti. E si capirà che è molto, molto di più.
Francesco Mascali
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