In un mondo dove stereotipi e classificazioni sono all’ordine del giorno, inaugurare la vita dei neonati con un nome singolare diventa quasi esigenza creativa per i genitori. Lo sa bene la golosa famigliola della Nuova Zelanda che ha dovuto rinunciare al sogno di chiamare i due gemelli di casa Fish e Chips, in forza di una legge a tutela della futura dignità dei suddetti ignari. Almeno su Facebook, invece, gli orgogliosi mamma e papà americani di Hashtag catalogano la figlia come la celebre etichetta di Twitter, mentre un’altra coppia connazionale vede strapparsi dal calore del focolare l’amorevole Adolf Hitler.
Per ragioni diverse, l’Arabia Saudita mette al bando Malika (regina) e Jabrieel (angelo Gabriele); nome troppo regale il primo, blasfemo il secondo. La lista nera vanta una puntuale elencazione di cinquanta nominativi che non possono essere dati ai propri figli perché non islamici e, dunque, poco in linea con il contesto civile, religioso ed etnico. Se ambite ad un erede Matto (Sor Chai), Gobbo (Khiow Khoo) o dalla Testa Puzzolente (Chow Tow), invece, evitate di trasferirvi in Malaysia, dove il governo tronca sul nascere queste originali forme espressive già dal 2006. Solo in Marocco l’abolizione di ogni elenco ad opera dell’Alto Commissario dello Stato Civile è apparsa, in tempi recentissimi, come una vera conquista, soggetta ai soli limiti della morale, del buon costume e dell’ordine pubblico. Contemporaneamente, nell’era virtuale in cui imperversano le abbreviazioni grammaticali, con furore dalla Cina una coppia ha forse pensato di risparmiare inchiostro sulla carta d’identità dando alla luce “@”, da tradursi quasi come “l’amore di lui”; il nome dato al bebè da mamma chioccia è stato rigettato dalla polizia locale. Ma il panorama asiatico è stato letteralmente infiammato dalla demoniaca battaglia tra lo Stato e il padre dell’innocente Diavolo (Akuma); la lotta legale, fondata sul principio di un abuso psicologico in danno al piccolo, si è risolta infine in un ravvedimento del genitore.
Se nel nome si prefigura in qualche modo il destino dell’uomo, comunque, Apple avrà senza ombra di dubbio una vita senza medici intorno, ma Harry Potter resterà orfano e la sua amica Troy sarà troppo presa dalle sue adolescenziali guerre d’amore per aiutarlo. Quanto all’Europa, la Norvegia ha detto no a sesso, malattie e parolacce. E se da un lato la Svezia, Paese in cui di Ikea può esserci solo la multinazionale, prevede l’assenso delle autorità riguardo alla combinazione di nome e cognome, dall’altro la Germania prende sul serio la questione e fonda lo Standesamt, un reparto che le ha suonate di santa ragione ai parenti di Grammophon.
Negli italiani, invece, scorre il sangue caldo degli artisti, cosicché il Presidente della Repubblica ha dovuto placare i fantasiosi slanci dei cittadini con il decreto numero 396 del 2000. L’articolo 34, rubricato come «Limiti all’attribuzione del nome» cristallizza quattro principi essenziali, posti a prevenzione di possibili stati di ridicolaggine e vergogna della progenie. Questa non potrà chiamarsi come il padre, i fratelli o le sorelle viventi; l’appellativo straniero deve essere espresso nei caratteri dell’alfabeto italiano, con estensione alle lettere j, k, x, y, w; qualora il bambino non sia a conoscenza della propria ascendenza, non potrà avere un nome che tradisca in qualche modo le proprie origini. Nel caso in cui i genitori, o chiunque altro dichiari l’identità del neonato, non demordano dai loro progetti contro legge, riceveranno ugualmente l’atto di nascita dall’ufficiale di Stato civile, il quale darà opportuna notizia al Procuratore della Repubblica «ai fini del promovimento del giudizio di rettificazione». Recentemente è stato inoltre risolto l’eterno dilemma del nome Andrea, riconosciuto in via definitiva dalla Cassazione quale unisex. L’intervento dei giudici italiani è previsto nelle ipotesi in cui l’appellativo dato a un bambino possa provocare in questi una marcata insicurezza futura, conseguenza di scherno e di limitazioni all’interazione sociale. Cosa ne penserà di tutto questo tra qualche anno il piccolo Silvio-Berlusconi, la cui maestra si rifiuta già di chiamarlo per intero?
Claudia Rodano
«In nomen omen».
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