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“Noah”: colossal biblico con Russell Crowe
15 Aprile 2014
EntertainmentSettima arte

“Noah”: colossal biblico con Russell Crowe

Home » Entertainment » “Noah”: colossal biblico con Russell Crowe

C’era da aspettarsi di tutto da un regista come Darren Aronofsky (conosciuto ai più per The Wrestler e Il cigno nero) che ad un certo punto della carriera decide di cimentarsi nella trasposizione cinematografica dell’avventura biblica di Noè, dal titolo Noah, il costosissimo ed attesissimo colossal costato oltre centoventicinque milioni di dollari. Un film audace e fedele alla Bibbia che fonde un montaggio serrato e un uso espressivo dei volti. La storia di Noè e del diluvio si sviluppa nei capitoli dal 5 al 9 della Genesi, all’interno della Bibbia. Si tratta di poche pagine, descrizioni stringate e accenni (come è uso nel libro sacro) a tratti molto ermetici. Da questa esigua fonte d’ispirazione Darren Aronofsky assieme allo sceneggiatore Ari Handel (entrambi provenienti da un’educazione ebraica) ha tratto un film di più di due ore, aggiungendo molto e interpretando la componente visiva con libertà, ma sempre attenendosi ad una decisa fedeltà al testo. Nonostante ciò, a differenza di quanto fatto da Mel Gibson con La passione di Cristo, Aronosfky schiva la sacralità del testo e si concentra su un uomo e la sua devozione al compito che deve portare a termine. In Noah il nome di Dio non è mai chiamato in causa (o invano) se non come “il Creatore” e in questo il regista non vuole rispettare uno dei comandamenti, piuttosto tiene a sottolineare la connotazione ateista della sua opera. Il Creatore non è mai raffigurato nonostante tra le righe se ne percepisca la crudeltà punitiva attraverso le sue azioni e motivazioni, intrinseca alla storia perché con il diluvio spazza via la razza umana rea di troppi peccati, oltre che per l’invio sulla Terra delle anime degli Angeli Caduti, dimostratisi compassionevoli con gli uomini. Infine il divino si dilegua quando Noah ha più urgenza del suo consiglio.

NoahL’opera cerca di raffigurare la fede dell’uomo, la trattiene e quasi la brama, sfiancando lo spettatore che si ritrova a parlare da solo al suo cuore, messo dinanzi all’infinito trapassato scritto dalle stelle e dipinto da un cinema spettacolare, ambizioso. Questo è un Noah postmoderno che va continuamente alla ricerca della narrativa religiosa, inzuppata di versi significanti e dalla sintassi quasi mistica nonché potente e sfarzosa. Uno spazio filmico riempito da un “tutto” di sensazioni appesantite e asfissianti, estremizzate all’ennesima potenza, implacabili e continue, una nenia, una preghiera in ginocchio che implora pietà, facendo vergognare l’uomo e tutte le sue declinazioni. È una vera e propria presa di posizione quella di Aronofsky che attraverso la Genesi dell’Antico Testamento attualizza nemmeno troppo velatamente la cattiveria dell’uomo, bieca e accecata dal male che inghiotte qualsiasi scintilla di bellezza incondizionata, nascondendosi dietro la via comoda della libertà. È vero quindi che in Noah il passato diventa nuovamente presente, facendosi pericolosamente futuro di un’evoluzione antropologica che persegue ancora una volta la sete di dominio e di egemonia. Il tempo, poi, assoluto protagonista di una pellicola tanto sconfinata quanto estremamente riservata, fonde la pietas, così come la misericordia, in una nuova speranza che apre al domani, al mattino che insegue la notte, ai raggi del sole che oltrepassano le nuvole, illuminando esclusivamente l’amore degli Elementi nella perfezione Divina. Noah è duro da comprendere se non si considera la cultura in cui è prodotto, ma è anche portatore di una fusione tra tradizionale e contemporaneo (mantenere in vita le storie che fondano la società occidentale) che non è banale.

Enrico Riccardo Montone

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