GIARRE – Non solo droga e armi, ma estorsioni e raid punitivi. Le mani della mafia in un intero quartiere di Giarre, nel Catanese. Jungo, questo il nome dell’area in questione, è dove si trovavano le risorse e i pusher per gestire l’intero sodalizio criminale che si estendeva in buona parte della costa ionica siciliana.
A muovere i fili era Giuseppe Andò, da molti conosciuto come “U cinisi” (il cinese) per il suo lavoro di venditore ambulante nella frazione Trepunti del comune etneo. Il 59enne si occupava di tutti gli aspetti del mercato illecito e si serviva della collaborazione dei figli. Era lui che reclutava gli spacciatori, spesso molto giovani.
La sua “roccaforte” era il camion, posizionato non a caso in un punto che gli consentisse di controllare i movimenti delle pattuglie nel primo e strategico incrocio all’uscita dell’autostrada. Lo stesso mezzo era anche punto di incontro con sodali, fornitori, creditori e membri di altri clan con cui stringere accordi. Prendeva ordini direttamente da uno degli esponenti del clan Brunetto (affiliato ai Santapaola–Ercolano), Pietro Oliveri, noto come “Carmeluccio”. Era l’erede del defunto boss Paolo Brunetto. Era Oliveri a dare indicazioni su come gestire il tutto, dalla droga ai “sottoposti”.
Al “cinese”, infatti, spettava il compito di punire i trasgressori o chi non rendesse a lavoro. Tra le sanzioni la detrazione dello stipendio, pari a circa 250 euro a settimana. Ma anche di prendersi cura di loro e delle famiglie qualora finissero in manette, garantendo le spese legali.
Era capo indiscusso della zona e, tipico dell’onore mafioso, non accettava che la sua immagine potesse essere sporcata, come accaduto in un episodio emerso durante le indagini. «Appartengo a Pippo il cinese»: questa la frase usata “impropriamente” da un giovane in un’occasione e costatagli l’ira del boss attraverso un pestaggio punitivo.
Il nome di Giuseppe Andò è quello che spicca maggiormente tra i 46 arrestati nel corso dell’operazione “Jungo”.
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