Everest, diretto, co-prodotto e montato dal regista islandese Baltasar Kormákur, narra la disastrosa spedizione sull’Everest avvenuta nel 1996, raccontata nel saggio Aria sottile (Into Thin Air), scritto nel 1997 da Jon Krakauer. Al confine tra Cina e Nepal, la vetta dell’Everest è la meta di un gruppo eterogeneo che ha deciso di affidarsi a Rob Hall (Jason Clarke) e alla sua società, l’Adventure Consultants, per tentare l’impresa. Rob è sposato con Jan (Keira Knightley) e in attesa di una figlia che sogna di cullare in fondo alla discesa. Ma le cose si complicano presto perché il campo base è affollato da dilettanti e da altre spedizioni commerciali gestite da Scott Fischer (Jake Gyllenhaal), alpinista col vizio dell’alcol. Rob e Scott trovano però ragione e modo di collaborare e il 10 maggio 1996 partono alla volta della vetta, alta 8.848 metri. La scarsa preparazione dei clienti, combinata all’approssimazione organizzativa, ritarda la salita dei due gruppi. Poi una tempesta improvvisa si solleva, soffiando sulla discesa e sul destino degli uomini.
La narrazione procede “di pari passo” all’incedere di Rob Hall sull’Everest: dopo la sofferta decisione di compiere l’impresa, lo vediamo, quasi sempre tormentato e sofferente, mentre cammina. In parallelo il montaggio del suo background, ove si racchiude il senso di tutto. Ma il senso della narrazione risiede anche a un passo dalla vetta in cui il regista recupera un genere cinematografico popolare negli anni ’20 e ’30 in Germania, polemizzando sulla globalizzazione del viaggio che deumanizza e snatura i popoli e la natura che incontra. Kormákur costruisce una vera e propria cosmogonia rappresentando la montagna come l’asse di congiunzione che chiude il gap tra il mondo celeste delle potenze divine e il mondo terreno. Il percorso dal basso all’alto per ascendere l’Everest è un’iniziazione, una mutazione dello status e di una condizione del vivere umano. L’alpinismo si inscrive in questa cornice di referenza, nella logica della catarsi, parafrasando Aristotele. È utilizzato nel senso medico-fisiologico di “purificazione”. Con ciò non si intende affermare che il film abbia una funzione liberatoria rispetto alle passioni, che abbia cioè una funzione di generica purificazione dalle passioni. In realtà la catarsi a cui qui si fa riferimento è relativa unicamente alle due passioni citate da Aristotele nel teatro greco, pietà e terrore. C’è infatti un solo verbo che si può ricondurre a questo film ed è peraínusa, participio passato del verbo peraíno, che vale condurre, condurre a termine, suscitare.
È come se il film inducesse pietà e terrore dinanzi alle avventure/sventure che colpiscono un protagonista in cui ci immedesimiamo, perché in qualche modo ci assomiglia, ma quel protagonista è in qualche modo avvertito come appartenente a un’altra razza di uomini, a una razza superiore, che si può concedere degli eccessi, delle trasgressioni. Fra lo spettatore e i protagonisti del film c’è distanza, ma è la distanza giusta che consente il transfert, la proiezione. I personaggi è come se fossero la proiezione di desideri trasgressivi (come scalare l’Everest) che i membri di una società ordinata e civile possono solo sognare e che non possono consentirsi di praticare.
Enrico Riccardo Montone
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