ROMA – Un disegno di legge caratterizzato da un iter parlamentare complesso e piuttosto travagliato. Un grosso faldone tenuto in ghiaccio in commissione Ambiente al Senato della Repubblica per ben sette anni, salvo poi ricevere lo scorso novembre il fatidico via libera di Palazzo Madama su spinta della maggioranza con 154 voti favorevoli, 47 contrari e 6 astensioni, fino all’approdo alla Camera. Stiamo parlando della riforma dei parchi nazionali, con cui si vogliono apportare importanti modifiche alla legge quadro numero 394 del 6 dicembre 1991, che istituì le aree protette nel nostro Paese.
Questo disegno di legge si inserisce nell’ottica di un processo di semplificazione e decentramento, in modo tale da snellire ed accelerare ulteriormente le procedure burocratiche, nonché concedere più sovranità ai parchi sui beni demaniali e maggiori competenze nella gestione della fauna selvatica. Quest’ultimo punto rappresenta un tentativo di risposta ai problemi legati alla presenza di specie animali alloctone e invasive (come i cinghiali) all’interno dei parchi. La riforma prevede, tra l’altro, il parere preventivo ed obbligatorio dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) in caso di interventi di tipo faunistico, aggiornamenti sulla gestione della aree marine protette, datato 1982, nonché l’istituzione dei parchi del Matese e Portofino.
Dura la reazione da parte delle sigle ambientaliste, mentre gli agricoltori si ritengono soddisfatti dei punti toccati dal ddl. Secondo quanto sostiene Legambiente, questa riforma così com’è difficilmente sarà in grado di rilanciare in futuro le sorti dei parchi nazionali. A tal proposito l’associazione chiede l’abolizione del vetusto albo dei direttori dei parchi, così che il loro reclutamento avvenga per bando pubblico come già avviene negli altri comparti del pubblico impiego, nonché l’invito a tagliare il cordone ombelicale della deriva localistica, frutto di decenni di cattiva gestione a livello politico.
Gabriele Mirabella
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