Il premierato è una forma di governo la cui definizione non è univoca. In Europa e nel mondo esistono alcune forme di premierato, ma la sola nazione ad aver sperimentato (e poi abbandonato) l’elezione diretta del capo di governo è Israele. L’idea è di rendere più stabile il governo, e di concedere al presidente del Consiglio maggiori poteri. In passato, erano state ipotizzate soluzioni simili anche in altri progetti di riforma costituzionale. Ma quali possono essere i rischi? Anche l’ex magistrato Gherardo Colombo propone la sua soluzione.
Per inquadrare il premierato che si vorrebbe introdurre nel nostro Paese, non potendo riflettere così tanto sui testi normativi (a fronte delle continue modifiche delle bozze della riforma), è necessario evidenziare che ciò che permette di distinguere le forme di governo è il loro essere moniste o dualiste. Una forma di governo è monista quando c’è un solo circuito di legittimazione democratica (ed è la forma parlamentare, attualmente vigente in Italia): i cittadini eleggono il Parlamento, trasferendo la legittimazione del rapporto fiduciario. In virtù del rapporto fiduciario, il Governo può rimanere in carica se ed in quanto goda della fiducia del Parlamento. Nella forma dualista (come la presidenziale), invece, l’esecutivo (il Governo) e il legislativo (Parlamento) hanno ciascuno il suo circuito di legittimazione democratica, e quindi non serve il rapporto fiduciario. Detto ciò, in Italia la tendenza a immaginare riforme che rafforzino i poteri del Presidente del Consiglio, sia pur non eletto direttamente ma solo indicato nella scheda, è presentissima dagli anni ’90. Infatti, prima delle elezioni del ’96, la Commissione bicamerale per le Riforme costituzionali aveva rilevato che la questione era già presente nelle agende di tutte le forze politiche, soprattutto di quelle di centrosinistra, per un premierato non eletto direttamente ma indicato nella scheda (quindi diverso da quello proposto attualmente dal Governo Meloni), designato contestualmente all’elezione del parlamento dai cittadini sulla scheda.
I sostenitori della riforma mettono in luce che il meccanismo dell’elezione diretta che pare volersi introdurre in Italia (contrariamente al presidenziale puro, di cui si è accennato) avrebbe nella forma di governo regionale il suo punto più avanzato di sviluppo: prevedrebbe un doppio circuito di legittimazione democratica ma con una distinzione funzionale, nel senso che l’elezione del Parlamento è effettivamente quella funzionale alla rappresentanza dei cittadini, mentre l’elezione dell’esecutivo (tramite l’elezione del Presidente del Consiglio) è funzionale alla scelta del governo. Per questo motivo, sarebbe necessario che fosse presente la clausola simul stabunt simul cadent (in caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio, si torna al voto).
Secondo i sostenitori della riforma, non dovremmo pensare all’elezione diretta soltanto in una prospettiva di rappresentanza: serebbe invece una selezione dell’esecutivo (Governo), che per poter governare comunque deve avere la fiducia del Parlamento. Occorrerebbe quindi tenere conto dei cambiamenti strutturali della nostra società, del sistema di rappresentanza e degli stessi rappresentati: se si ritiene che la società sia sufficientemente democraticamente matura da sostenere un’elezione diretta, si può acconsentire alla riforma.
Molte sono le perplessità sollevate. È dubbio che ci sia questa maturità democratica in più, ed è necessario tenere conto dell’utilizzo delle riforme costituzionali come arma a maggioranza. Proprio perché bisogna tenere conto del cambiamento del sistema di rappresentanza e del rappresentato in sé, l’auspicio di riforme istituzionali progettate in una dimensione che non sia quella dello scontro fra maggioranza e opposizione si scontra con la rilevazione di una condizione di grande frammentarietà della nostra società, che per certi versi sembra essere meno matura democraticamente. Coloro che si oppongono alla riforma evidenziano che vero è che anche riforme con elementi di pericolosità possano trovare comunque dei contrappesi e delle linee di contenimento, ma che non sarebbe il caso di scommettere sulla maturità della cittadinanza e del paese reale; questo perché sembrano emergere sempre più condizioni di grande fatica esistenziale e di costruzione di comunità, in cui le intermediazioni sono state fortemente minate, in favore dello scontro demagogico. Secondo chi è contrario, occorrerebbe abbracciare un’altra prospettiva: ricominciare a tessere gli elementi necessari a costruire l’idea di comunità, di comprensibilità e vicinanza della politica. Per questo alcuni non sono così convinti che due circuiti elettorali riescano in maniera equilibrata: nelle proposte finora circolate, il Presidente del Consiglio eletto direttamente non ha poi una così chiara posizione di preminenza, l’elezione che proietta la scelta del governo sulla persona della Presidente del Consiglio proietta necessariamente una sorta di programma elettorale, e poi nel voto di fiducia ci sarà poi anche un (altro) programma parlamentare. Fra i due c’è una necessaria divaricazione, che non sembra facile da ricomporre. Da un lato c’è il rischio che la dimensione plebiscitaria riassuma in sé un po’ tutto: la formazione del governo, il momento parlamentare, la costruzione del programma, la dialettica, esautorando il ruolo del Parlamento. Oltretutto, secondo il progetto di riforma non ci sarebbero due circuiti elettorali, perché tutti sottolineano l’esigenza che, per non far sì che diventi l’esperienza israeliana, la maggioranza di elezione del presidente debba trainare una maggioranza quantitativa, tramite la legge elettorale. Alcuni rilevano che ci sia un’enfasi sulla stabilità, «come se la stabilità potesse essere garantita da alcune quantità, da un’elezione con dei risultati e dalla conquista di un certo numero di seggi in parlamento, che sulla carta segnano coerenza nella misura in cui pensiamo di svuotare il significato del Parlamento e della rappresentanza politica, perché non assegna la priorità sulla coerenza di investimento, ma sull’aspettativa che voteranno coerentemente, con il deterrente dello scioglimento anticipato. Quindi voteranno non in elaborazione di proposta politica ma in un’obbedienza di convenienza» (B. Pezzini).
Un altro tema essenziale per vagliare l’ipotesi di un premierato, è quello della figura del Presidente della Repubblica. Se venisse previsto di eleggere direttamente il presidente del consiglio, in primo luogo vi sarebbe un cambiamento dal punto di vista politico-istituzionale della legittimazione esibita nei confronti di società, ma in secondo luogo assumerebbe importanza il tema degli atti presidenziali e dell’obbligo di controfirma perché cambierebbe completamente. Sarebbe importante aggiungere qualcosa su questo tema secondo gli esperti, se si intendesse mantenere ferma l’elezione diretta: occorrerebbe scrivere che alcuni atti, che attualmente sono nelle mani del Presidente della Repubblica, restino di sua esclusiva pertinenza. Ad esempio, si tratta della nomina dei cinque giudici della Corte costituzionale che, ad avviso di coloro che hanno analizzato il progetto di riforma, non potrebbe diventare un potere assorbito dall’area governativa, perché perderebbe il senso l’architettura della stessa Corte; si tratta del potere di grazia, che è attualmente considerato un potere strettamente presidenziale e dovrebbe restare tale; inoltre, bisognerebbe rendere evidente anche che il rinvio delle leggi dovrebbe restare saldamente di pertinenza del Presidente della Repubblica. Inoltre, altro aspetto problematico della riforma è che tra i poteri forti di cui dovrebbe disporre la figura del Presidente del Consiglio ci sarebbe proprio lo scioglimento anticipato delle camere quale sua prerogativa esclusiva, mentre la Costituzione materiale reale si era già orientata nel nostro paese nel definire il potere di scioglimento come saldamente in mano al Presidente della Repubblica. Alla luce di ciò è stato proposto di sostituire all’elezione diretta l’indicazione sulla scheda. Dunque, occorrerebbe dare sostanza alla permanenza dell’onere della Presidenza della Repubblica, della struttura garantistica e di rappresentanza della continuità dell’ordinamento, che vigila in quanto guardiana, accanto alla separata struttura governativa.
Secondo un punto di vista diverso (sostenuto dall’ex magistrato Gherardo Colombo), di fronte alla crisi dei partiti politici, che oggi appaiono più come movimenti, che si avvicendano al governo con una rapidità incredibile, occorrerebbe optare per una soluzione diversa. La proposta della nomina diretta del Presidente del Consiglio non sarebbe un’espressione di fiducia nei confronti dell’elettorato, ma sarebbe al contrario espressione di sfiducia, secondo Colombo: «l’elettorato viene relegato a pronunciarsi una volta ogni cinque anni e poi zittito. Peraltro, in Italia vota meno della metà degli elettori: non possiamo pensare che l’elettorato sia maturo, perché se l’elettorato è maturo partecipa».
A suo avviso, il premierato, e quindi l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, non risolverebbe il problema della scarsa stabilità dei governi, perché prima di un’instabilità “esterna”, sussiste un’instabilità interna del governo, dipendente dal fatto che la coalizione è composta da più partiti, ciascuno dei quali pretende “una parte” quando si passa alla formazione del governo. Quindi il problema forse potrebbe essere il sistema elettorale, non la forma di governo. Ma in questo caso, andando a toccare il sistema elettorale, il rischio invece di diminuire, aumenta. Allora, paradossalmente forse sarebbe meglio ricorrere al presidenzialismo con delle garanzie effettive di separazione fra il Presidente del Consiglio e del Parlamento, con una tutela effettiva del parlamento. Però anche qui, secondo Gherardo Colombo, la tutela delle minoranze passerebbe in secondo piano, il che comporterebbe ulteriori dubbi anche sul presidenzialismo. Salterebbe la separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo per certi versi, con il risultato che venga caricata enormemente la magistratura, e che quindi la funzione di rispetto della legge si trasformi oggettivamente in qualcosa di diverso.
A fronte di tutto ciò, l’ex magistrato ha rilevato che forse una soluzione diversa (e non immediata come quella del premierato che attualmente viene proposta), che guarda all’investimento nel futuro e non ad una risposta istantanea (che potrebbe rivelarsi dannosa), sarebbe quella di insegnare la Costituzione fin dalle scuole, ragionando sul concetto di democrazia e di demos (popolo, che possiede il diritto di cittadinanza e vota), che a volte si rivela escludente: «Teniamo conto che le donne hanno votato per la prima volta nel mondo in Nuova Zelanda nel 1897, ma non è che in Europa si sia votato prima del 1900. Oggi non fa parte del demos chi vive in Italia da 5, 6, 10 anni, lavora in Italia, paga le tasse in Italia, e non è cittadino italiano. È necessario riflettere su questa forma che peraltro assume significati estremamente diversi. Qual è la tutela delle minoranze, per esempio? La democrazia è democrazia comunque, indipendentemente da un’effettiva tutela delle minoranze e di qualsiasi minoranza? Soltanto quando ci si chiariscono le idee sotto questo profilo poi si può pensare ad una riorganizzazione costituzionale. Occorre riuscire ad individuare quale sia il sistema per basarci sul riconoscimento della persona che contemporaneamente salvi la collettività. Bisognerebbe trovare un momento di incrocio fra la persona e la collettività, una misura che ci consenta di tenere insieme le cose. Emerge quindi che sia un problema di cultura: più che ragionare sugli strumenti e i mezzi, sarebbe opportuno ragionare sulle finalità. Possiamo trovare qualsiasi formula legislativa, ma quando questa formula si scontra con il modo di pensare collettivo, poi viene adattata. Una soluzione come quella proposta è una soluzione che svuota la Costituzione e ci mette abbastanza nelle condizioni di temere che si verifichino delle intrusioni… Allora c’era lo Statuto Albertino, però si può comunque modificare la nostra Costituzione, con una serie di passaggi che ci possono portare a quello che è successo più o meno un secolo fa, a destra o a sinistra che sia».
Stefania Piva
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È nata e vive a Milano. È Avvocato, laureata in giurisprudenza all’Università Statale di Milano, ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato di Brescia, e si è specializzata presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università Statale di Milano. Da sempre appassionata di politica e giornalismo, ha scritto in precedenza per il giornale locale ABC Milano.