La scomparsa di Gigi Riva è un colpo al cuore. Lo stesso, che ha colto di sorpresa l’ex attaccante del Cagliari e della Nazionale italiana. L’ultimo potentissimo tiro mancino che, Rombo di Tuono, ha tirato dritto al cuore della gente, la sua, che lascia di sasso. Senza parole. Forse, perché, come il popolo sardo, lui stesso amava il silenzio.
Tra i vari concetti che accomunavano Gigi Riva e la Sardegna, difatti, vi era quello che “la parola deve essere misurata“. Altro, però, che misurate. Per chi tenta di scrivere quest’articolo, è complicato persino trovare le parole. Quelle adatte, giuste, semmai ne esistono, per descrivere un mito del calcio italiano che ognuno di noi dovrebbe ricordare dentro se stesso in grandissimo silenzio.
Perché, tanto, nella propria mente, di frasi bellissime, a effetto, ne passano a non finire, ma quando è il momento di dirle ecco che svaniscono nel nulla. Vanno in fumo. Lo stesso fumo di pensieri che, in qualche par modo, Gigi Riva era. Un fumo di parole taciute. Un fumo di malinconia. E solo nel fumo delle sue sigarette, forse, trovava un po’ di serenità. Già, le sigarette. Il suo più grande vizio che non l’ha abbandonato neanche negli ultimi giorni, quando ricoverato all’ospedale Brotzu di Cagliari.
Gigi Riva. Un uomo, tutto d’un pezzo, un giocatore diventato esempio per un popolo, ma anche per una nazione intera, che al momento di parlarne ci si blocca. Una sorta di blocco reverenziale. Come quando vediamo le immagini dei suoi incredibili gol. Siluri a 130 km/h, rovesciate (come quella contro il Vicenza nel 1970), spericolati tuffi di testa. O, come quando veniamo a conoscere la sua incredibile storia che, per forza di cose, lo vede rappresentato come un eroe popolare.
Sardo tra i sardi già al momento del suo approdo in Sardegna, nel 1963, a soli diciassette anni. Tra l’altro, nello stesso periodo in cui, nella terra dei Quattro Mori, sbarcò anche il principe Ali Salman Aga Khan. Di fatto, due nobili che hanno portato in alto il nome della Sardegna: uno, principe per davvero, con tanto di titolo ereditario; l’altro, nobile di cuore.
Gigi Riva. Nobile d’animo che con le sue gesta principesche ha dato dignità a un popolo deriso. Ha dato voce a chi non aveva niente da dire. Ha regalato gioie a chi l’unica soddisfazione era vederlo giocare.
In una terra di pastori e banditi, come veniva rappresentata la Sardegna, Gigi Riva è stato un artista. L’artista del pallone che disegnava traiettorie mai viste prima. Lo stadio Amsicora, ogni domenica, diventava la cornice di quel fantastico quadro che Gigi Riva riusciva a realizzare con il suo pennello, il piede sinistro.
Venivano da ogni parte della Sardegna per vederlo giocare. Gli stessi banditi andavano all’Amsicora per ammirare le sue gesta. Tra questi, uno dei latitanti allora più ricercati, Graziano Mesina, che andava allo stadio vestito da frate o da donna pur di vedere Gigi Riva. Persino il pastore della Barbagia, ascoltava le partite alla radio e il lunedì non faceva altro che parlare del Cagliari.
Gigi Riva. Il mito per una terra che, nel 1970, ha mostrato all’Italia intera un volto nuovo. Il risvolto buono di quella medaglia che non era solo banditismo. Uno storico Scudetto, quello della stagione 1969/1970 appunto, che ha messo Cagliari e la Sardegna, terra da sempre considerata periferia economica e politica, al centro dell’Italia.
Perché, d’altronde, in quel Cagliari si rivedeva tutta la Sardegna così come Gigi Riva rappresentava il popolo sardo. Lo stesso popolo che, sin da subito, ha considerato quel ragazzino 17enne, arrivato nel 1963 con una valigia e orfano di entrambi i genitori, un figlio adottivo.
La stessa gente che, con lui, si è aperta mostrandogli il vero carattere sardo. Il modo di essere e di vivere da quelle parti. Concetti e valori – come socialità, ospitalità, coerenza, importanza della parola data – in cui lo stesso Gigi Riva si rivedeva. Caratteristiche che, il figlio del popolo sardo arrivato da Leggiuno (Varese), aveva già intrinseche dentro di sé come la madre terra adottiva.
Tornando allo storico Scudetto, il Cagliari si laurea, per la prima e unica volta nella sua storia, campione d’Italia il 12 aprile 1970. Con due giornate d’anticipo, grazie al successo casalingo contro il Bari (2-0, Riva e Gori) e alla conseguente sconfitta della Juventus sul campo della Lazio. Allo stadio Amsicora parte la festa, il pubblico è in delirio. Il mascherare le emozioni – tipico del popolo sardo ma anche di Gigi Riva per via delle ferite che la vita gli aveva lasciato – per una volta viene meno. Così come in ogni esultanza dopo un suo gol, l’attaccante indomabile esplode di emozioni. Sa che, in quella storica data, è diventato per sempre una leggenda. Non solo del popolo sardo, ma anche del calcio italiano.
Un’altra data, fortemente simbolica quanto importante per Gigi Riva, è quella del 25 ottobre 1970. Il Cagliari, campione d’Italia in carica, con il tricolore cucito sul petto, viene ospitato dall’Inter a San Siro disputando, forse, la partita più bella di quella storica squadra. Il risultato finale è di 1-3, Gigi Riva è stato il grande protagonista con una doppietta, e Sandro Mazzola a partita in corso dice allo stesso Riva di non umiliarli.
Negli spalti, in quella partita, siede il grande giornalista Gianni Brera che raccontando la partita sulle pagine del Guerin Sportivo scrive: “Il Cagliari ha subito infilato e umiliato l’Inter a San Siro. Oltre 70mila spettatori: se li è meritati Riva, che qui soprannomino Rombo di Tuono“.
Eccolo qui, il soprannome, il secondo nome, che accompagnerà Gigi per tutta la vita. La spiegazione è semplice ma fa capire, nella sua totalità, la potenza dell’attaccante italiano. Lo stesso Gianni Brera, infatti, spiega che quando Gigi Riva calciava si sentiva dalla tribuna un rumore sordo. Forte. Secco. Diverso da tutti gli altri. Un Rombo di Tuono, appunto.
La carriera da calciatore di Gigi Riva si connota di tre grandi infortuni. Due, con la maglia dell’Italia (il primo, al debutto in Nazionale nel 1967 quando si fratturò il piede sinistro contro il Portogallo; il secondo, nel 1971 contro l’Austria dopo un intervento killer). Il terzo, quello fatale, con la maglia del Cagliari.
La stessa Cagliari che lui non ha mai abbandonato e lasciato. Anche quando, ogni mattina, Gianni Agnelli chiamava il presidente della squadra sarda per acquistarlo. Anche quando, pur di portarlo alla Juventus, l’avvocato gli ha proposto uno stipendio da un miliardo di lire. Quest’ultimo rifiutato, perché “nessun giocatore mai potrà rendere così bene da giustificare cifre simili“.
In verità, però, Gigi Riva non voleva andarsene dalla Sardegna. Cagliari era casa sua. Non voleva tradire il popolo sardo che lo considerava uno di loro. La stessa gente per intenderci che, quando Rombo di Tuono si ritirò, ha spento le radio. Non ha più comprato i giornali sportivi. Ha vissuto una sorta di lutto. Lo stesso lutto che, in questi giorni, è stato disposto in Sardegna fino alla data dei suoi funerali. Il suo esempio, tuttavia, ha ispirato i giovani sardi (e non) che sono cresciuti col suo mito. Che, da lui, hanno appreso il modo di vivere, di giocare, di stare dentro e fuori dal campo.
Quel difficile momento dell’appendere gli scarpini al chiodo, comunque sia, arrivò nel 1976. La sfortuna si accanì nuovamente contro di lui, tanto da porre fine alla sua leggendaria carriera.
Nessuno, meglio di Gianni Brera, descrisse quel particolare momento storico: “La notizia del grave incidente occorso a Luigi Riva mi è discesa nell’anima a tradimento, come un’amara colata di assenzio. Io vorrei solo che degli eroi autentici non si guastasse mai il ricordo. L’uomo Riva è un serio esempio per tutti. Il giocatore chiamato “Rombo di Tuono” è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi. Ne può discendere solo per prodigio. Purtroppo, la giovinezza che ai prodigi dispone e prepara, ahi, giovinezza è spenta“.
Dopo il ritiro dal calcio, Gigi Riva è rimasto in Sardegna. Nel contempo, però, ha continuato a dare il proprio apporto a quella maglia per cui sarebbe stato disposto a fare la qualsiasi cosa: quella della Nazionale italiana. Dal 1990 ricoprì il ruolo di Team Manager dell’Italia, abbandonato solamente nel maggio del 2013 per il progressivo avanzare dell’età. Con la nuova veste da dirigente, partecipò a cinque Europei (che da calciatore vinse nel 1968) e sei Mondiali (che sempre da giocatore perse in finale nell’edizione di Messico 1970). Tra le Coppe del Mondo a cui prese parte da Team Manager: Italia 1990, Usa 1994 e quello vittorioso di Germania 2006.
In queste occasioni, ebbe modo di diventare un punto di riferimento anche per i capisaldi delle varie nazionali che si sono succedute nel tempo. Da Roberto Baggio a Gianluigi Buffon, passando per il suo “successore” al Cagliari, Gianfranco Zola. Figure che, in lui, hanno visto una sorta di mentore. A volte, anche di protettore.
Dopo l’esperienza da dirigente con la Nazionale, in particolar modo negli ultimi anni, Gigi Riva si era chiuso sempre più. Faticava a uscire dalla sua abitazione, in centro a Cagliari, nel quartiere di San Benedetto. Ha preferito restare nella penombra, forse non sapendo che lui stesso era la luce.
È scappato via da quei riflettori che mai li sono piaciuti, come quando da bambino, a 9 anni, dopo la morte del padre, scappava dal collegio di Leggiuno per andare a casa dalla mamma che non poteva tenerlo con sé perché costretta a lavorare per portare avanti la famiglia.
D’altronde, uno come Gigi Riva, la vita l’ha sempre vista un po’ più dura rispetto agli altri. Specialmente, quando a 16 anni perse anche la madre che, sin da quando Gigi era bambino, ripeteva: “Un giorno anche la Gazzetta dello Sport parlerà del mio Gigino“. La stessa che, quando il piccolo Riva andava a giocare a calcio all’oratorio lì vicino casa sua, aveva paura che rompesse le scarpe. E allora, il ragazzino già uomo in tenera età, giocava scalzo pur di fare quello che più lo divertiva: giocare a pallone. Anche scalzo. Tanto, è sempre stato più forte e potente di tutti gli altri.
Tutte le ferite che la vita gli ha riservato, mai del tutto ricucite, negli ultimi anni gli hanno presentato il conto. Preso il sopravvento. Abbandonato alla sua malinconia, Gigi Riva ha preferito restare coerente con sé stesso. Come sempre ha fatto, non è sceso a compromessi. Da buon sardo adottivo, ha preferito restare in silenzio. Colui che è nato sulle sponde del Lago Maggiore e vissuto vicino alla spiaggia del Poetto a Cagliari, ha preferito non nuotare nelle acque di una società che lui sentiva distante. Gigi, ha preferito restare a riva. Anzi, Gigi ha preferito restare Riva.
Come canta Piero Marras nel suo celebre testo, “Quando Gigi Riva tornerà, non ci troveranno ancora qua. Quando Gigi Riva tornerà, la partita ricomincerà. Quando Gigi Riva tornerà, una grande festa ci sarà. Dio, ce ne sarà da raccontare quando Gigi Riva tornerà”. Addio Gigi, personaggi come te non ne nasceranno più.
Fonte Foto in Evidenza: Corriere.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Articoli di proprietà di Voci di Città, rilasciati sotto licenza Creative Commons.
Sei libero di ridistribuirli e riprodurli, citando la fonte.
Giuseppe, classe 1999, aspirante giornalista, è laureato in Scienze Politiche (Relazioni Internazionali). Fin da piccolissimo è appassionato di sport e giornalismo.
Simpatiche, si fa per dire, le scene di quando da piccolo si sedeva nel bar del padre e leggeva la Gazzetta dello Sport “come quelli grandi”.
È entrato a far parte di Voci di Città, prima, come tirocinante universitario e, poi, come scrittore nella redazione generalista e sportiva. Con il passare del tempo, è diventato coordinatore sia della redazione sportiva che di quella generale di VdC. Allo stesso tempo, al termine di ogni giornata di campionato, cura la rubrica settimanale “Serie A, top&flop” e scrive anche delle varie breaking news che concernono i tempi più svariati: dallo sport all’attualità, dalla politica alle (ahimè) guerre passando per le storie più importanti, centrali o divertenti del momento.
Il suo compito in sintesi? Cercare di spiegare, nel miglior modo possibile, tutto quello che non sa! (Semicit. Leo Longanesi).