Stanotte non ho chiuso occhio, proprio non ce l’ho fatta. Facevo fatica a non pensare alla tragedia che ha scosso il mondo della pallacanestro e non solo, quella che ci ha fatalmente portato via Kobe Bean Bryant, un’autentica leggenda, una fonte d’ispirazione per chiunque, un uomo capace di scrivere la storia in mille modi diversi, eccezionalmente parte di un qualcosa che va al di là del semplice universo sportivo.
Sì, forse mi sto decisamente dilungando troppo, o forse no. Perché per descrivere la grandezza e il genio di Kobe Bryant non basterebbe un romanzo, figuriamoci un articolo. La scrittura è la mia più grande passione, eppure faccio una fatica immane a mettere nero su bianco questo pezzo, semplicemente perché vorrei che questa notizia fosse falsa, che fosse soltanto parte di un sogno, o meglio, di un incubo. Di quelli che ti sconvolgono il sonno, ma che ti fanno tirare un sospiro di sollievo al risveglio.
Kobe è scomparso in seguito a un incidente in elicottero nei pressi di Calabasas, zona a nord-ovest di Los Angeles, e con lui c’erano altre otto persone, tra cui la figlia Gianna Maria, di soli tredici anni. Poche ore prima si era complimentato con LeBron James, che due giorni fa lo ha superato nella classifica dei migliori marcatori di tutti i tempi, e spesso e volentieri si era recato al seguito dei Los Angeles Lakers, rimanendo legatissimo alla squadra di cui è stato trascinatore per venti lunghi anni.
Già, perché Kobe per tutta la sua carriera ha indossato un’unica e sola maglia, quella dei Lakers, cui è rimasto sempre fedele. Selezionato con la tredicesima scelta assoluta al Draft 1996 dagli Charlotte Hornets, venne immediatamente scambiato e passò in gialloviola. Si ispirava a Michael Jordan, tanto che nel suo repertorio c’erano numerosi movimenti di MJ, eseguiti con una precisione e un’eleganza che farebbero rabbrividire i più grandi pittori rinascimentali.
Nel corso della sua carriera, Kobe ha vinto la bellezza di cinque titoli NBA, due ori olimpici, un MVP, due MVP delle Finali, quattro MVP dell’All-Star Game, uno Slam Dunk Contest e due titoli di miglior scorer stagionale ed è stato convocato per ben 18 volte all’All-Star Game, totalizzando 33.643 punti in 1346 presenze. Tra le sue innumerevoli prestazioni passate alla storia della pallacanestro e dello sport in generale, tre racchiudono il meglio di un giocatore e di un uomo capace di sovvertire ogni pronostico e cambiare il destino.
La prima è la leggendaria gara da 81 punti col 61% dal campo (28/46) e il 54% da dietro l’arco (7/13) contro i Toronto Raptors, il 22 gennaio 2006, che gli permette di diventare il secondo giocatore a segnare così tanti punti in una singola partita (davanti a lui soltanto Wilt Chamberlain, a quota 100). I Raptors di un giovanissimo Chris Bosh sembrano avere un altro passo rispetto ai Lakers, ma Bryant non è d’accordo e manda in scena una prestazione da antologia, segnando in tutti i modi possibili e regalando la vittoria per 122-104 ai suoi.
La seconda è la gara-5 delle Finals 2010 contro i Boston Celtics, persa per 92-86 in un TD Garden infuocato. La rivalità tra le due squadre più vincenti della storia è fortissima e il 3-2 sembra indirizzare la serie in favore di Boston, ma i Lakers vinceranno le ultime due gare e conquisteranno il titolo in sette partite. Se i gialloviola rimangono in partita fino alla fine in gara-5 è solo grazie a Kobe, che si rende autore di 38 punti col 48% al tiro (13/27) e il 40% dalla lunga distanza (4/10), in una serata in cui è “solo sull’isola”, parafrasando l’Avvocato Federico Buffa: il resto della squadra, infatti, produce appena 48 punti.
La terza partita, infine, è probabilmente la più significativa ed importante della sua carriera, quella del ritiro: il 13 aprile 2016, lo Staples Center è gremito, nonostante i Lakers abbiano ormai da tempo la certezza di non partecipare ai playoff. La squadra pensa già al futuro e dà spazio ai tanti giovani a sua disposizione, ma l’ultima partita di regular season è anche l’ultima della carriera di Kobe Bryant e i riflettori non possono che essere tutti per lui.
Uno come Bryant, del resto, non poteva certo uscire di scena in maniera banale, così contro gli Utah Jazz ci tiene a dimostrare che a 38 anni suonati sa ancora benissimo stare “solo sull’isola”. Gli ospiti sembrano in totale controllo, ma Kobe si prende la scena e abbatte la difesa avversaria con tutte le armi che ha a disposizione, quasi come se avesse deciso di mettere in scena un capolavoro con tutte le sue giocate più celebri in un’unica partita.
Prima di lasciare per l’ultima volta il parquet dello Staples Center, il leggendario fuoriclasse col numero 24 sulle spalle segna i due tiri liberi che gli permettono di portarsi a quota 60 punti e si gode la calorosissima standing ovation dei suoi tifosi, accorsi in massa per salutare per l’ultima volta quello che probabilmente è il giocatore più iconico della storia dei Los Angeles Lakers, la cui maglia è stata indossata da gran parte dei migliori della storia del gioco (Kareem Abdul-Jabbar, Magic Johnson, Shaquille O’Neal in passato, LeBron James oggi).
Ci sarebbero tante altre partite da raccontare, ma le tre sopracitate bastano e avanzano per comprendere la grandezza e lo spessore dell’uomo prima che del giocatore. Dopo il ritiro, Kobe si è cimentato in tanti altri campi, tra cui quello cinematografico, aggiudicandosi l’Oscar nel 2018 col suo cortometraggio “Dear Basketball”, premiato come miglior cortometraggio d’animazione. Oltre a ciò, il Black Mamba è cresciuto in Italia, vivendo tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia tra il 1984 e il 1991, in quanto suo padre Joe ha militato a lungo nel campionato italiano.
Bryant non ha mai nascosto il suo amore per l’Italia e parlava molto bene la nostra lingua, tanto da aver preteso che anche le sue quattro figlie la studiassero. In Europa ha imparato i fondamentali del gioco e si divertiva a fare canestro da ogni posizione negli intervalli delle partite di suo padre, negli Stati Uniti è diventato la leggenda di cui tutti, ma proprio tutti, hanno sentito parlare almeno una volta nella loro vita.
Perché al di là dello sport, Kobe è stato un’icona del nostro secolo, un Michael Jackson della pallacanestro che con le sue prodezze metteva d’accordo tutti, compagni e avversari, estimatori e detrattori. Come ogni mito della storia, infatti, non tutti erano dalla sua parte, ma nessuno ha mai negato il suo enorme valore, sul piano umano prima ancora che su quello tecnico. Appresa la triste notizia, tutti piangono. La pallacanestro e il mondo in generale perdono un uomo eccezionale, che magari ora potrà raccontare a Wilt Chamberlain di avergli quasi soffiato il primato per punti segnati in una singola partita.
Tra gli dei del basket da ora in poi, infatti, c’è anche lui, che divinità cestistica a onor del vero lo è diventato ben prima del tragico schianto in elicottero che gli è costato la vita. L’uomo “solo sull’isola” non è mai stato davvero solo, perché la sua storia ha appassionato milioni e milioni di fan del gioco e/o amanti dello sport in generale. E, purtroppo, anche il dolore per la sua scomparsa ha coinvolto emotivamente un numero incalcolabile di persone.
Del resto, Kobe Bean Bryant ha lasciato il segno un po’ ovunque e le tracce delle sue imprese sono indelebili e rimarranno per sempre nelle menti e nei cuori di tutti gli amanti della pallacanestro e di quelli che sono cresciuti ammirandone le gesta. Superare il dolore per la tremenda notizia sarà davvero dura, ma quando il cuore piange per ciò che ha perso, l’anima ride per ciò che ha trovato. Rest In Peace, Kobe.
Dennis Izzo
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Coordinatore editoriale di Voci di Città, nasce a Napoli nel 1998. Nel 2016 consegue il diploma scientifico e in seguito si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli. Tra le sue tanti passioni figurano la lettura, i viaggi, la politica e la scrittura, ma soprattutto lo sport: prima il calcio, di cui si innamorò definitivamente in occasione della vittoria dell’Italia ai Mondiali 2006 in Germania, poi il basket NBA, che lo tiene puntualmente sveglio quasi tutte le notti da ottobre a giugno. Grazie a VdC ha la possibilità di far coesistere tutte queste passioni in un’unica attività.
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