Quante volte ci è capitato di uscire fuori a cena, sederci al ristorante e posizionare il cellulare sul tavolo? Capita molto spesso, infatti, di trovarci insieme ad altre persone e di vedere alcuni soggetti i quali, ogni volta che la conversazione perde di intensità e interesse, iniziano ad utilizzare il proprio smartphone per connettersi ad un mondo virtuale, come quello dei social network, poiché ritenuto più interessante di quello reale.
«La mia vita è diventata la maggiore distrazione dal telefono», così il 46,3% degli intervistati in un’indagine, compiuta da James Roberts e Meredith David, dal nome Computers in Human Behavior, ha risposto quando gli è stato chiesto quale fosse il loro rapporto con gli smartphone, e più in generale con la realtà virtuale.
Questo fenomeno, molto più diffuso di quanto si possa credere, si chiama phubbing. L’etimologia della parola è molto semplice: phone (telefono) + snubbing (snobbare). Per phubbing si intende, letteralmente, l’atteggiamento con il quale si trascura una persona con cui si è impegnati in una qualsiasi situazione sociale, controllando compulsivamente il cellulare.
Come riportato dallo studio, però, non è più il cellulare la causa principale di questo problema, che con la sua onnipresenza diventa causa di distrazione per i soggetti, ma l’esatto contrario. Sono le persone ad esserne diventate dipendenti, rendendo il fenomeno una vera e propria patologia. Dunque, si hanno carnefici (phubbers) e vittime. Più di un terzo degli intervistati ha dichiarato di non ricevere la giusta attenzione del partner, perché sempre impegnato ad aggiornare la sua Second Life. Il 22,6% ha addirittura ammesso di avere avuto gravi incomprensioni all’interno della propria relazione sentimentale a causa di questa difficoltà. «Quel che abbiamo scoperto è che quando qualcuno percepisce che il proprio partner lo sta ignorando dedicandosi al telefono, questo crea conflitti e conduce a più bassi livelli di soddisfazione nella relazione – dichiara James Roberts – livelli che portano, a loro volta, a una minore soddisfazione quotidiana e, magari, ad elevate soglie di depressione».
Il termine phubbing è stato coniato dall’australiano McCann e dal 2013 è stato incluso nel Macquaire Dictionary. McCann ha analizzato questa delicata situazione, decidendo di creare una vera e propria campagna di tutela per le vittime le quali, quotidianamente, subiscono questo trattamento da parte di compagni, famigliari e amici. La campagna in questione si chiama StopPhubbing (stopphubbing.com), e nel sito relativo si possono trovare una serie di dati molto interessanti. Come riporta una delle sue sezioni, infatti, le città con il più alto livello di phubbers sono New York, Los Angeles, Londra, Parigi, Hong Kong e Sidney. Non solo Stati Uniti, quindi, come si potrebbe immediatamente pensare, ma anche Asia ed Europa.
Ogni ristorante registra, in media, 36 casi di phubbing ogni sera. L’87% dei teenagers preferisce comunicare tramite messaggio che relazionarsi faccia a faccia. La maggior parte dei phubbers usa i propri telefoni per: caricare stati sui social network, scrivere a qualcun altro, googlare “Chuck Norris”, cercare una lavanderia a gettoni e ridere di battute che non sono le proprie o del/la compagno/a. Questi sono solo alcuni dei dati che si possono trovare sul sito dell’iniziativa promossa da McCann. Inoltre, vi sono anche alcune divertenti sezioni in cui si possono scaricare dei volantini o creare una lettera personalizzata da distribuire ai soggetti che soffrono di questo “disturbo”.
Tutto questo viene presentato nel modo più ironico possibile, quasi come si trattasse di uno scherzo, ma la verità è che sotto questa ironia si nasconde un problema reale che sta contaminando la società. E la cattiva notizia è che questa situazione si sta aggravando sempre di più, poiché se non si è individui always connected, si viene tagliati fuori dal campo di considerazione. Il paradosso è proprio questo: usciamo di casa non più per relazionarci con gli altri e costruire rapporti, ma per comunicare alle persone, le quali non ci sono in quel momento, che siamo usciti di casa. L’importante, oggi, non è più esserci, ma “dire di esserci”.
Sara Forni
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