Nella storia ci sono state donne che hanno deciso di dare voce al proprio diritto, alla propria libertà. Una libertà desiderata ardentemente sia nell’espressione, ma soprattutto nel modo di vivere. In una società che per secoli è stata governata da un patriarcato rivelatosi spesso becero e immorale. Una delle prime donne ad affrontare questo argomento fu la drammaturga e attivista francese Olympe de Gouges. Seguita a sua volta dalla filosofa e scrittrice inglese Mary Wollstonecraft, madre di Mary Shelley. E infine da un’altra scrittrice e attivista, questa volta svedese, Fredrika Bremer.
Una delle prime manifestazioni dell’emancipazione femminile lo si ha con Olympe de Gouges. La drammaturga, che visse durante gli anni della Rivoluzione francese, scrisse un testo giuridico dal nome Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Questo testo, posto sul modello stesso della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, risultò particolarmente critico nei confronti della Rivoluzione.
L’opera di de Gouges non faceva altro che denunciare la “dimenticanza” dei diritti delle donne nel progetto di uguaglianza e libertà della Rivoluzione francese. Lo scopo era quello di mostrare che le donne, fin dalla nascita, avevano gli stessi diritti dell’uomo. Una vera e propria emulazione critica nei confronti del testo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Un’opera che fece sentire la propria voce, tanto che Robespierre chiuse tutto ciò che riguardava un circolo di sole donne, condannando, in seguito, alla ghigliottina la stessa de Gouges.
Nello stesso periodo, Mary Wollstonecraft scrisse la Rivendicazione dei diritti della donna. Il testo aveva come riferimento i diritti persi dalle donne. Si poneva come obiettivo di rivoluzionare il modo di vivere della donna, di restituire loro una dignità persa, o probabilmente mai avuta.
Wollstonecraft volle cavalcare l’onda della Rivoluzione francese per far sì che la donna ottenesse la propria emancipazione. L’obiettivo era che venissero riscritti le convenzioni di entrambi i sessi a partire dall’educazione infantile. Secondo la scrittrice, era proprio quello il male da estirpare. Fin dall’infanzia i bambini crescevano con la convizione che l’uomo dovessere prevalere sulla donna. Questo cambiamento di mentalità si poteva ottenere soprattutto dalle donne del ceto sociale medio.
Sebbene sia un’autrice alquanto sconosciuta ai più, Fredrika Bremer fu una figura molto importante per le donne svedesi e non. Scrittrice dall’età di ventisette anni, nacque nel 1801 ad Åbo, ora Turku, nell’attuale Finlandia. All’età di tre anni si trasferì a Stoccolma, in una Svezia che non era per niente paragonabile alla società di oggi.
La donna svedese dell’Ottocento era ancora una donna a cui veniva vietata un’istruzione superiore, ed era supervisionata dal padre e dal fratello, nel caso ce ne fosse uno in famiglia. Il diritto di eredità non era alla pari come previsto per un figlio maschio. E soprattutto impossibilitata di gestire i propri soldi.
A differenza di de Gouges e Wollstonecraft, Bremer cercava di rivolgersi a quante più donne possibili. Bremer fu una scrittrice di romanzi, una fucina di storie di donne dove il tema era sempre lo stesso: l’emancipazione femminile. Inoltre è considerata la prima scrittrice realista svedese. Decisa a non sposarsi mai, le sue ideologie trovavano posto anche nelle sue opere.
Uno dei suoi romanzi più famosi è Hertha. In quest’opera, la protagonista di nome proprio Hertha dichiara come il matrimonio sia mortificante sia per l’uomo che per la donna. Hertha diventa la voce di Bremer. Il realismo dell’opera lo si trova proprio nella visione ottocentesca della donna. Avrebbe accettato l’idea del matrimonio se solo non fosse condannata a vivere sempre nella stessa maniera. Sottomessa, derisa, denigrata, picchiata. E il solo pensiero di avere una figlia femmina e condannarla alla stessa vita, la faceva desistere ulteriormente. Le stesse donne criticheranno Hertha: le diranno che troverà difficoltà ad essere invitata a feste, a ballare. Hertha, però, non vuole ballare, semplicemente vuole cambiare la società con le sue parole. Proprio come Bremer.
Prima della stesura di Hertha, Bremer aveva già una certa fama mondiale. Opere come Quadri di vita quotidiana (Teckningar utur vardagslivet), le valsero un riconoscimento dall’Accademia di svedese, la medaglia d’oro. Quest’opera in particolare spiccò per il suo realismo e la naturalezza con cui venivano descritte scene di tutti i giorni. Le opere di Bremer vennero lette in varie parti del mondo, tradotte in molte lingue. Motivo per cui ebbe persino un invito dagli Stati Uniti. Una fama la quale la riempiva di orgoglio, ma che allo stesso tempo definiva folle.
Ciò che definiva folle la scrittrice era proprio il successo della descrizione della realtà della situazione femminile nella società. Come possono avere successo tali opere in un’era dove comanda l’uomo e la donna nubile è mal vista e definita incapace di autosostentarsi? L’autodeterminazione della donna nubile era un’altra delle sue battaglie.
Per dare il giusto esempio per due anni viaggiò da sola in varie parti del mondo. Quando giunse negli Stati Uniti, nel 1849, rimase delusa dal movimento femminista. Nonostante fossero già attive propagande per il diritto di voto alle donne. Viaggiò per l’Italia, la Svizzera, la Grecia, la Turchia, e persino la Palestina. Ebbe modo di poter conoscere nuove realtà prima di tornare nel suo Paese natale.
Il romanzo Hertha fu pubblicato nel 1856, dal ritorno dei suoi viaggi. Ed era un inno alla parità tra uomini e donne. Le donne dovevano essere partecipi ai movimenti societari proprio come gli uomini. Dovevano aver diritto all’istruzione, all’insegnamento. Dovevano poter insegnare nelle scuole, università, o diventare medici, pastori. Mestieri che spettavano agli uomini.
Hertha si innamorò anche di un uomo, Yngve, cui l’amore era reciproco. Ma vivere per sé stessa e il suo probabile marito non le avrebbe concesso di raggiungere il suo scopo. L’idea di Hertha era di liberare tutte le sue sorelle legate, cioè tutto quelle donne che avevano bisogno di un uomo accanto per poter vivere. E se si fosse sposata sarebbe andata contro la sua stessa ideologia.
Fredrika Bremer morì nel 1865, all’età di 64 anni. L’anno prima, nel 1864, l’uomo perse il diritto di picchiare la propria moglie. L’anno dopo, nel 1866, il parlamentare Carl Johan Svensén pubblicò un testo dal nome Sui diritti civili della donna (Om qvinnas medborgerliga rättigheter). Nel 1873 le donne ottennero il diritto di studiare all’università e di acquisire un titolo accademico, eccetto quelli in teologia e giurisprudenza.
Fredrika non vide mai questi cambiamenti, come ad esempio il diritto al voto. I suoi scritti, le sue propagande e il suo attivismo per migliorare le condizioni della donna ebbero una notevole influenza, sia in Svezia che nel resto del mondo.
Sebbene siano passati due secoli, la donna lotta ancora per i suoi diritti, soprattutto nelle società più fragili e patriarcali. Se in Europa l’emancipazione femminile è stata raggiunta, diversamente accade in alcuni Paesi dell’Africa o dell’Asia. La donna è ancora soggetta a matrimoni combinati, a vivere in casa per accudire i figli e cucinare. È ancora vittima di persecuzioni e lapidazioni in caso di tradimento o rifiuto del matrimonio.
Proprio sulle donne nubili, Bremer scrisse che la donna ha bisogno della sua libertà e di essere consapevole del proprio valore.
Questo articolo prende ispirazione dal capitolo Per le mie sorelle legate tratto dal libro Made in Sweden – Le parole che hanno fatto la Svezia, edito da Iperborea. La giornalista svedese e autrice di quest’opera, Elizabeth Åsbrink, alla fine del capitolo si interroga proprio su questa libertà di cui parla Fredrika Bremer.
‘‘Le donne la usano davvero la propria libertà? Sono consapevoli della loro capacità di farne uso? Oppure in realtà la sua visione, le sue parole, devono ancora realizzarsi, ricamate a punto croce e appese come quadretto in ogni aula, in ogni luogo di lavoro, in ogni casa e ogni stanza dove le donne nubili (e sposate) trascorrono la propria vita?”
Foto: Släkhistoria
Simmaco Munno
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Nato e cresciuto a Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, quando il grunge esplodeva a livello globale, cioè nel ’91, e cresciuto a pane e pallone, col passare del tempo ha iniziato a sviluppare interessi come la musica (sa mettere le mani almeno su tre strumenti) la letteratura e la linguistica. Con un nome provinciale e assonante con la parola sindaco, sogna di poter diventare primo cittadino del suo paese per farsi chiamare “Il sindaco Simmaco”.