Il 19 aprile è uscito il dodicesimo album dei Pearl Jam registrato nello studio Shangri-La di Malibù, in California. Il quintetto di Seattle affida il loro lavoro nelle mani del produttore Andrew Watt, cui a quasi 34 anni già vanta collaborazioni con Iggy Pop, Ozzy Osbourne e The Rolling Stones. Lo stesso frontman dei Pearl Jam, Eddie Vedder, affidò nelle sue mani la produzione del suo terzo album da solista: Earthling.
I Pearl Jam tornano quindi con il dodicesimo album Dark Matter. Un disco tutto sommato buono e solido che li consacra sempre più come una delle migliori band del panorama rock. Dopo la fine dell’era grunge, i Pearl Jam hanno smussato e migliorato gli stilemi delle loro sonorità hard rock dei primi lavori, rendendole, quindi, più pulite, più curate.
I riff sono sempre duri e potenti, ma negli ultimi lavori dove danno il meglio di sé è nelle strofe melodiche. E lo si può trovare anche in questo album. Dark Matter può collocarsi tra i migliori dischi della loro discografia. Energico, feroce, ma anche dolce e romantico. Un album alla Pearl Jam. Componenti che, arrivati tutti sulla sessantina, decidono di guardare sempre avanti senza provare una notevole nostalgia per il passato. Cogliendo le loro migliori sfumature abbandonando l’idea di scimmiottare sé stessi. Disco che sa farsi ascoltare con piacere dall’inizio alla fine.
Ciò che rimane inalterato sono i testi vedderiani sempre uniti da un’antitesi di malinconia e positività, e sempre taglienti. Una descrizione di eventi dall’esito finale distruttivo, cui si cerca di dare un senso per andare avanti. La materia oscura come concetto decadente, ma che alimenta il desiderio di non smettere di sognare. Come cercare il perdono attraverso il dialogo. O cercare di trovare una via di fuga quando il male ci attanaglia tanto da toglierci il fiato. O nei casi in cui non ci si sente all’altezza delle situazioni e si è fatto del proprio meglio. Fino alla rassegnazione all’idea che c’è il rischio di rimanere da soli, che non cambierà nulla, ma con sempre quell’alone di speranza ad accompagnare le nostre giornate.
I Nirvana suonavano un grunge con sfumature punk. Il grunge dei Soundgarden si rifaceva ad influenze stoner. Il grunge degli Alice in Chains aveva un carattere più heavy metal con il compianto Layne Staley prima, e sludge/doom dopo con il frontman William Du Vall. E il grunge dei Pearl Jam? Era visibilmente ispirato all’hard rock (o rock classico) degli anni settanta. Tutti e quattro i gruppi, comunque, hanno contribuito a plasmare il Seattle Sound ed ispirare tantissime band tra la metà degli anni novanta e i primi anni duemila.
La città di Seattle, infatti, alla fine degli anni ottanta fu invasa da un’ondata di gruppi grunge. Ed è inutile dire che non ci furono solo loro quattro nel panorama grunge. Lo scopo della nascita di questo genere era portare più “sincerità” nella musica, e contrastare le classifiche piene di artisti pop e hair metal. In poche parole dare fastidio alla musica mainstream.
Il genere di riferimento fu il punk rock, per poi andare a riprendere i suoni rock ‘n roll degli anni sessanta e settanta. Il tutto suonato più potente, più arrabbiato. Il termine grunge, dal gergo grungy, ha un significato che più si avvicina alle parole sporco e sudicio. E fu più un termine da associare sia per il mix di vari generi (punk, metal, hard rock), e sia per il modo trasandato di vestirsi. La maggior parte delle band diede un personale tocco alla loro musica, ma era comunque finito nel pentolone grunge.
Con l’esplosione globale di tale genere negli anni ’90, il mondo scoprì Seattle. Da città navale quale era lontana dallo show business statunitense, si ritrovò protagonista di un movimento musicale epocale. Breve sì, ma intenso. Non solo ebbe un impatto importante sulla musica, ma anche sulla moda. Il paradigma dell’abbigliamento prevedeva: camica di flanella o una semplice t-shirt; jeans strappati; capelli lunghi; e come scarpe anfibi o Converse. Chiunque si vestisse così era etichettato come grunge, e Seattle divenne ambasciatrice di un vero e proprio stile di vita. E purtroppo anche dell’eroina, ma questa è un’altra storia.
Non a tutti i gruppi, però, piacque essere associati al genere grunge, e tra questi proprio ai Pearl Jam.
Qui sotto potete ascoltare l’album tramite il link di Spotify:
Foto: Yahoo
Simmaco Munno
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Nato e cresciuto a Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, quando il grunge esplodeva a livello globale, cioè nel ’91, e cresciuto a pane e pallone, col passare del tempo ha iniziato a sviluppare interessi come la musica (sa mettere le mani almeno su tre strumenti) la letteratura e la linguistica. Con un nome provinciale e assonante con la parola sindaco, sogna di poter diventare primo cittadino del suo paese per farsi chiamare “Il sindaco Simmaco”.