Curioso e senz’altro spunto di riflessioni risulta lo studio guidato da Jean Decety, del dipartimento di Psicologia dell’Università di Chicago, sovvenzionato dall’organizzazione cristiana John Templeton Foundation e pubblicato il 5 novembre scorso sulla rivista scientifica Current Biology.
La ricerca è stata incentrata sul rapporto fra il credo religioso e la prosocialità – definita come l’insieme di azioni compiute senza l’aspettativa di una ricompensa, al solo fine di realizzare o incrementare il benessere altrui – e ha interessato 1170 bambini dai 5 ai 12 anni, provenienti da Canada, Cina, Giordania, Turchia, Stati Uniti e Sudafrica. Nella prefazione alla pubblicazione si sottolinea che «poiché 5,8 miliardi di esseri umani, che rappresentano l’84% della popolazione mondiale si identificano come religiosi, la religione è senza dubbio un aspetto prevalente della cultura che influenza lo sviluppo e l’espressione della prosocialità». Eppure, i risultati «sfidano la tesi per cui la religione sia di vitale importanza per lo sviluppo morale, e supportano l’idea che la secolarizzazione del discorso morale non diminuirà la bontà umana, ma farà esattamente il contrario».
A differenza di altre, la suddetta indagine ha preso in considerazione famiglie le cui condizioni di partenza non erano accomunabili, cosicché l’unica ripartizione è stata effettuata, per comodità, fra famiglie non religiose, cristiane e musulmane. A queste ultime è stato chiesto quanta capacità di essere empatici e reattivi alle ingiustizie avessero i propri figli: la stima dei genitori cristiani e musulmani è stata più elevata rispetto a quella dei genitori non credenti. Per valutare, invece, la loro severità di giudizio rispetto alla cattiveria, a ciascun bambino sono stati mostrati dei video in cui dei coetanei si spingevano e cadevano per terra ed è stato chiesto loro che punizione avrebbero inflitto a chi lo aveva fatto di proposito. A prescindere dall’atto volontario o meno della spinta, i figli di famiglie religiose (prima musulmane, in secundis cristiane) sono stati più intransigenti e hanno suggerito sanzioni più severe. Per ultimo, è stato proposto ad ogni bambino di scegliere dieci adesivi fra una selezione di trenta e, quando si è domandato loro di cederne qualcuno a chi non ne aveva ricevuti, il cosiddetto “gioco del dittatore” ha fatto constatare che i figli di famiglie non religiose si sono rivelati più altruisti: hanno regalato 4,1 adesivi in media, contro i 3,3 dei bambini provenienti da famiglie musulmane e cristiane.
La conclusione emersa, quindi, rende il legame fra religiosità e prosocialità piuttosto controverso, dal momento che non sempre la formazione in una familiare credente aiuta a formare un giudizio morale più equilibrato. Meno empatici nei confronti delle ingiustizie sono i figli di genitori non religiosi, che tuttavia dimostrano un comportamento più altruistico e una minore tendenza alle azioni punitive. A spiegare il fenomeno è lo stesso Decety, per il quale il solo fatto di professare un credo è percepito dentro di sé come un segno di bontà, che quasi giustifica inconsciamente i comportamenti egoisti di ogni giorno. Una “licenza morale” plausibile, stando ad altre ricerche secondo cui la religiosità porterebbe a offerte caritatevoli più frequenti, ma ad un’assistenza volontaria in situazioni quotidiane di bisogno molto meno frequente, e che inevitabilmente porta a considerare meno vincolante il contesto religioso di provenienza nella formazione etica del singolo individuo.
Eva Luna Mascolino
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