Speranza e cambiamento, questi i fili conduttori dell’ottavo e ultimo discorso sullo stato dell’Unione di Barack Obama, giunto ormai all’epilogo del suo mandato presidenziale. Nonostante una campagna elettorale per il suo successore si annuncia più aspra che mai, i toni del Presidente sono stati, sì, appassionati, ma al tempo stesso pacati e concilianti. Dopo aver ammesso che il suo grande rammarico è di lasciare un sistema politico estremamente polarizzato, dove regna la diffidenza e lo scontro frontale, egli ha rinnovato il suo auspicio nei confronti di un dialogo fruttuoso fra democratici e repubblicani, condizione indispensabile affinché gli Stati Uniti possano affrontare con saggezza e rigore le sfide della modernità: «Il futuro migliore si realizzerà solo se lavoriamo insieme, risanando il nostro sistema politico. La democrazia non funziona se pensiamo che chi non è d’accordo con noi sia sempre in malafede, la democrazia è guasta se il cittadino medio pensa che la sua voce non viene ascoltata».
La volontà di richiamare all’unità i membri del Congresso, riunito in seduta comune, non impedisce a Obama di attaccare duramente, pur senza mai nominarlo direttamente, il candidato alle primarie repubblicane più estremista e “politically scorrect“, Donald Trump: «Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore per prendere il loro posto. Quando i politici insultano i musulmani questo non ci rende più sicuri. E’ solamente sbagliato. Ci sminuisce agli occhi del mondo e rende più difficile raggiungere i nostri obiettivi, tradendo quello che siamo come Paese».
Nel corpo centrale del discorso, il Presidente americano ha rivendicato i successi ottenuti negli anni dei suoi due mandati, considerati come dei pilastri grazie ai quali potranno essere raggiunti risultati ancora più significativi nei prossimi anni. La vigorosa ripresa economica, con il Pil in crescita e il tasso di disoccupazione dimezzato rispetto al 2009, deve essere la colonna portante di una crescita più equa, in grado di ridurre celermente le crescenti diseguaglianze che hanno colpito la società americana. Anche in tema di politica estera, Obama ha rigettato la visione repubblicana di un’America in declino: essa resta, dal punto di vista militare, «di gran lunga la più forte, più delle otto nazioni che la seguono messe insieme» e, quando scoppia una crisi, non vi è Paese che non richieda la leadership americana, poiché «nessuno va a bussare alle porte di Pechino o Mosca».
Tuttavia, dinnanzi alle accuse di debolezza dello scenario internazionale, il Presidente degli Stati Uniti risponde ribadendo come essere un Paese guida per il resto del mondo non significhi «scegliere tra ignorare il resto del mondo, salvo quando uccidiamo terroristi, o occupare altri Paesi», significa invece avere la «capacità di usare con saggezza la forza militare e di spingere il mondo a sostenere cause giuste». Anche in questo caso traspare un implicito attacco allo scontro di civiltà evocato da Trump e ai bombardamenti a tappeto richiesti da Ted Cruz.
In conclusione, Obama ha invitato a lasciare da parte le soluzioni semplicistiche e unilaterali per far spazio a politiche più lungimiranti e condivise: «Quello che propongo è sicuramente difficile: è più facile essere cinici, sostenere che il cambiamento è impossibile, muoversi in modo spregiudicato illudendosi che le azioni non abbiano conseguenze. Ma così si torna indietro a un mondo di sistemi tribali, nel quale si mettono alla berlina i cittadini che non rassomigliano a noi, che non pregano come noi, che non votano come noi. Non può essere questo il futuro dell’America». In seguito all’augurio rivolto al suo futuro successore di riuscire a portare avanti quei cambiamenti inevitabili, ma la cui possibilità di successo dipende solo da scelte condivise, Obama ha terminato il discorso professando ottimismo e speranza, affermando che «vincerà l’amore incondizionato, vincerà la forza della verità».
Lorenzo Guasco
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