La libertà di espressione, altamente garantita dalla Costituzione Italiana tramite l’art. 21, non ovunque è vigente. Totalitarismi, cartelli, oscurantismo governativo e censura di ogni genere all’estero limitano fortemente la libera informazione. Chi osa sfidare questi Big Brother si ritrova il più delle volte ucciso o gravemente leso fisicamente e/o psicologicamente. Il primato dei Paesi ove il giornalismo cammina a braccetto con la morte è detenuto da Iran e Messico.
Sabb al-nabi significa in arabo insultare il profeta: è questo il capo d’accusa imputato a Soheil Arabi, fotografo e blogger iraniano, condannato alla pena capitale tempo fa, da un tribunale in Iran. Questi è stato prima sottoposto a numerose torture dagalera e, tra queste, spicca la detenzione in isolamento per due mesi. La sentenza è stata poi oggetto di dibattito giurisprudenziale; infatti, se l’articolo 262 del Codice Penale Islamico prevede la pena di morte per chi insulti Maometto, l’articolo 264 prevede 74 frustate allorquando esista un ragionevole dubbio che l’offesa sia stata dettata da rabbia o volontà terze all’imputato. Il fotografo, tuttavia, avrebbe commesso il reato – secondo quanto da lui dichiarato in condizioni non stabili – su Facebook, con un semplice post. E, se i giornali sono limitati al massimo nei loro contenuti, i social network non sono certo da meno: si tratta di una pubblica piazza virtuale sotto il dominio di una grande mano di ferro, che spazza via qualsiasi cosa non le vada a genio. Alla fine, per fortuna e a seguito anche di una grande raccolta firme in suo favore, ad Arabi è stata salvata la vita.
I social network, quindi, espongono al rischio tanto quanto il giornali? A quanto pare, sì. Se in Iran vige la legge islamica, in Messico comanda quella dettata dai cartelli. Si prenda ad esempio un caso avvenuto nel 2011, quando María del Rosario Fuentes Rubio lavorava presso Primera Hora, giornale locale di Nuevo Laredo, e si firmava come María Elizabeth Macías Castro; su Twitter, invece, si firmava come Nena DLaredo. La donna è andata incontro alla per decapitazione e la sua testa è stata deposta sul monumento locale di Cristoforo Colombo. Recentemente, invece, sono stati invece uccisi Filadelfo Sanchez Sarmiento (direttore e voce di La Favorita 103.3 di Miahuatlán) da pare di killer, mentre lasciava la redazione, e il blogger Juan Mendoza Delgado (prima ancora, Armando Saldaña Morale, giornalista radiofonico di Veracruz), freddato con dei colpi di arma da fuoco. Il loro sbaglio era stato quello di parlare di criminalità organizzata in Messico, là dove la parola colpisce più della spada, ma anche dove l’informazione è più letale della cicuta. I cartelli – ovvero le organizzazioni criminali del luogo – non fanno alcun tipo d’eccezione: parlare di loro equivale a morire, senza distinzioni.
Il Messico e l’Iran occupano un posto tra i primi dieci nel Ranking dei Paesi che non rendono la dovuta giustizia agli attacchi alla libertà di stampa. Tuttavia, a volte il silenzio può essere imposto anche dalle sbarre: tale inciviltà, non a caso, è praticata largamente in Egitto, dove i giornalisti che “parlano troppo” vengono arrestati e detenuti nelle carceri locali. Da Twitter al giornale di paese, passando per Facebook e per i blog, una parola di troppo può costare la vita, ma può fornire a molti anche un grande contributo. L’informazione libera è, infatti, la medicina necessaria alle società piegate da mafie e dittature, motivo per cui ai suddetti “martiri” dovrebbe essere riconosciuta una maggiore tutela.
Francesco Raguni
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