Diversamente da quanto si è portati a pensare d’abitudine, i tatuaggi non sono figli del nostro tempo: nel libro della Genesi, infatti, Caino viene descritto come il primo uomo tatuato di cui si abbia notizia. Etimologicamente il termine tatuaggio indica un disegno scritto sulla pelle e la sua radice, tatau, altro non vuol dire che marchio, ma tale accezione si colora di mille sfumature in relazione al variare delle civiltà e delle epoche di diffusione. Segni di identificazione per alcuni e di omologazione per altri, i tatuaggi celano significati fortemente influenzati dalla propria natura simbolica, da una parte, e dalle tradizioni popolari dall’altra.
Nell’Africa Settentrionale, per esempio, i tatuaggi sono prerogativa quasi esclusivamente femminile, volta, prima dell’avvento dell’Islam, a distinguere le donne berbere da quelle arabo-musulmane. «La storia dei marocchini non è scritta su un pezzo di carta, ma è tatuata sulla pelle delle donne da secoli, come se fosse una pergamena. Purtroppo l’abbiamo dimenticato» è quanto ha affermato Lahcen Zinoun. Proprio in Marocco le donne erano solite, non a caso, tatuarsi il corpo per esprimere resistenza e opposizione al dominio francese. Così, prima che fosse proclamata l’indipendenza dallo Stato europeo, chi avesse perso un proprio caro si tatuava il mento, quasi a volere asportare sul proprio viso la barba di quest’ultimo. In seguito, per le giovani donne berbere tatuarsi il viso è diventata espressione di femminilità e bellezza, al punto che molte sono spesso costrette a farlo dai mariti stessi, bramosi di accrescere il valore del “bene moglie”.
È quello che è accaduto a delle ormai anziane donne della regione Chaouia, in Algeria, che la fotografa Zohra Bensemra ha incontrato e di cui ha immortalato, oltre ai decorati volti, anche i racconti. Tra queste, coloro che sono state costrette a rinunciare alla naturale purezza dei lineamenti ricordano ancora il dolore provato al momento dell’incisione: dolore che – non è difficile supporlo – come un velo si antepone alla loro immagine, nel momento in cui si specchiano. Quelle che, invece, sono state felici di rimediare a qualche piccolo difetto estetico, rendendo ad esempio più profondo lo sguardo tramite l’unione delle sopracciglia con dei segni indelebili, affermano di essersi sentite realmente più belle e fra loro c’è anche chi attribuisce ai propri tatuaggi la propria fortuna. Come emerge dalle foto della Bensemra, si tratta di visi di donne che, come tavolozze piene di colori, mescolano le occhiaie non di chi ha sonno, ma è stanco, con le rughe che cicatrizzano senza far male lo scorrere del tempo e di un po’ di vita in più, in cui è presente il ricordo – positivo o negativo che sia – di una giovinezza ormai perduta, ma letteralmente impressa addosso per sempre.
Oggi queste donne vivono in una zona a maggioranza sunnita e sono considerate peccatrici dalla religione islamica, per la quale tatuarsi equivale a snaturare l’opera divina, ad arrecare a sé stesse una sorta di maledizione. D’altronde, un’operazione atta a rimuovere i tatuaggi dai loro volti sarebbe troppo rischiosa, se si tiene conto della loro veneranda età, così c’è chi si priva dei propri gioielli in segno contemporaneamente di penitenza e di pentimento. E, se l’ultracentenaria Fatma Tarnouni rimpiange di non essere stata precedentemente messa a conoscenza di tale divieto, c’è invece chi come Khadra Kabssi non si pente affatto e, piuttosto, afferma: «Se un serpente mangerà il mio cadavere per punirmi, non sentirò nulla, perché sarò già morta».
Concetta Interdonato
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