Alla domanda posta dal titolo di quest’articolo, ovvero se esita una relazione tra lingua parlata e diversa visione della realtà, pare si possa rispondere con una certa tranquillità di sì. È ormai da un po’ di anni che numerosi studi scavano sull’argomento, dimostrando, ogni volta, un’intensa relazione tra idioma parlato dalla nascita e diversa disposizione a interpretare la realtà. Si tratta di sfumature, certo, ed è quasi scontato il dire che bisogna comunque tenere presente che esistano basi generali comuni per tutti i tipi di linguaggio, tesi tra l’altro diffusa da Noam Chomsky con la sua teoria della “grammatica universale”. Ciò non toglie, però, che ogni linguaggio abbia una sua struttura differente, la quale ha effetti diversi sul formularsi del pensiero. Questo processo sembrerà ovvio se si tiene in considerazione il substrato culturale di riferimento che ogni lingua sottende, oltre alle oggettive differenze in campo grammaticale; un esempio può essere dato dallo studio condotto dall’economista Keith Chen dell’Università di Los Angeles, la quale è riuscita ad evidenziare tramite lo studio della loro lingua, una maggiore attitudine al risparmio dei cinesi: infatti, quest’ultimi, che non possiedono un tempo verbale preciso per indicare il futuro, avrebbero una propensione maggiore a mettere da parte dei soldi, precisamente il 30% in più rispetto ai parlanti di lingue in cui il tempo verbale del futuro sia invece chiaramente definito. La Chen ha spiegato questa correlazione dicendo che forse «identificare linguisticamente il futuro in modo distinto dal presente lo rende più lontano, motivando meno a risparmiare».
Altri esempi a sostegno di come la lingua possa modificare il nostro modo di percepire la realtà, si possono trovare paragonando la stessa parola in lingue diverse: il russo, ad esempio, possiede due diversi termini per indicare le sfumature del colore blu, mentre l’inglese invece solo una; uno studio del 2007 pubblicato su PNAS mostra a tal proposito come conseguentemente chi parla russo sia più rapido nell’individuare le due diverse tinte rispetto a chi parla inglese. Inoltre, una parola, pur riferendosi allo stesso oggetto, può nel passaggio da una lingua a un’altra, acquisire delle diverse sfumature di significato legate a riferimenti alla cultura di appartenenza. Ancora una volta il confronto tra il cinese e le lingue occidentali può risultare utile a chiarificare: nella lingua cinese la parola “drago” non fa pensare solo a un animale fantastico somigliante a un enorme serpente, ma anche a un simbolo positivo, portatore di fortuna forza e saggezza; ecco dunque come la percezione di questo essere irreale sarà per un cinese diversa da quella di un occidentale non legato alla stessa cultura.
Da tutto ciò emerge quindi che riuscire a padroneggiare più lingue, aiuta ad avere una mente più attiva e aperta a diverse interpretazioni e facilita l’adattamento a situazioni impreviste, oltre a ‒ come confermano ennesimi studi ‒ rallentare notevolmente l’invecchiamento cognitivo. I bilingue avrebbero dunque innegabili vantaggi, oltre a essere spesso considerati soggetti a una sorta di “cambiamento della personalità” legato al passaggio da una lingua a un’altra. Per concludere, facciamo riferimento ad un ultimo studio, pubblicato su Psychological Science e riportato tempo fa anche sul giornale The post Internazionale, in cui sono stati studiati i bilingue parlanti tedesco e inglese e i monolingue; sono stati mostrati loro dei video con alcune semplici azioni motorie, come una donna che cammina verso una macchina o un uomo che pedala verso il supermercato per poi chiedergli di descriverle. È così emerso che i monolingue tedeschi tendevano a descrivere l’obbiettivo dell’azione, dicendo ad esempio: «Una donna cammina verso la sua macchina», mentre i monolingue inglese descrivevano l’azione senza far caso all’obbiettivo dicendo: «Una donna che cammina». Alla base di questa differente descrizione, c’è il modo in cui i diversi schemi grammaticali collocano le azioni nel tempo: in inglese un’azione che si sta svolgendo viene espressa tramite l’applicazione del morfema –ing, I’m working (Sto lavorando), ponendo così l’attenzione sull’azione in corso. Il tedesco non ha questa forma e la ricerca ha anche evidenziato la capacità dei bilingue tedesco-inglesi e viceversa, di proiettarsi in una prospettiva o in un’altra in base al contesto linguistico. Insomma, essere bilingue pare aiuti sul serio a comprendere diversi punti di vista sulla realtà.
Lorena Peci
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