Essere poliglotti ha sicuramente diversi vantaggi pratici e permette di usufruire di molte possibilità, tanto in ambito lavorativo quanto in numerosi altri. Più ricerche si sono concentrate sullo studio delle potenzialità che il parlare più di una lingua offrirebbe: parecchie di queste, per esempio, hanno dimostrato nel tempo gli effetti del bilinguismo sul cervello e in particolare una ricerca indiana dell’Institute of Medical Sciences di Hyderabad ha tempo fa evidenziato come parlare una seconda lingua possa ritardare l’insorgere di tre tipi di demenze: Alzheimer, demenza frontotemporale e demenza vascolare. Un altro aspetto davvero interessante – sondato da diversi studi di linguistica, sociolinguistica e psicologia – riguarda la personalità dei poliglotti, la quale pare sia incline a cambiare a seconda della lingua parlata. La tesi è stata posta all’attenzione del pubblico qualche anno fa in un articolo pubblicato dal giornale The Economist, all’interno del suo blog sul linguaggio chiamato Johnson.
L’articolo richiama la tesi di un linguista americano morto nel 1941, Benjamin Lee Whorf, secondo cui ogni lingua codificherebbe in sé una diversa visione del mondo, che a propria volta influenzerebbe significativamente i parlanti. Il ribattezzato whorfianesimo sostiene, dunque, l’idea di uno specifico legame tra linguaggio e pensiero, che imputa al primo la capacità di modellare il secondo. Dacché non appoggiato da tutti, tale orientamento è stato più volte al centro di dibattiti, uno dei più famosi portato avanti dallo stesso Economist nel 2010. Eppure, a prescindere dagli scettici, ci sarebbero comunque alcune buone ragioni per pensare che la lingua influenzi il pensiero umano: non tutti i bilingui, infatti, sono abili allo stesso modo nei due idiomi parlati, perché spesso si impara una lingua a casa dai genitori e l’altra a scuola e nella vita di tutti i giorni, il che comporta per i bilingui diversi punti di forza e di debolezza in entrambe le parlate. Se si considera anche che lavorare usando una seconda lingua rallenta il ragionamento; non c’è affatto da meravigliarsi che le persone si sentano “diverse” al variare del linguaggio utilizzato, più spontanei nell’idioma che sono abituati a parlare fin dall’infanzia e più insicure nell’altro. Tutto ciò finisce matematicamente per influenzare e modificare l’atteggiamento del singolo bilingue, quindi, a seconda che parli l’una o l’altra lingua.
Anche nei casi in cui si abbiano le stesse competenze in entrambe le parlate, una componente che in ogni caso fa la differenza è l’aspetto culturale: il bilinguismo, infatti, è spesso accompagnato da un biculturalismo, ovvero da una doppia immersione nei modi di dire e di fare di due diverse realtà. Non a caso, pertanto, un qualsiasi bilingue che sia anche biculturale troverà più istintivo collegare la sfera familiare ai propri dicsorsi, quando si esprimerà nela lingua della sua infanzia, mentre sentirà più spontaneo fare dei collegamenti con il mondo della scuola o del lavoro, parlando l’idioma che ha imparato e più usato nella società in cui si è formato e lavora. Questi argomenti, convalidati da numerosi test psicologici, sembrano, in conclusione, convalidare l’ipotesi di un cambiamento di personalità al passaggio da una parlata all’altra.
Lorena Peci
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