Appena tre anni fa, la dinastia dei Golden State Warriors sembrava giunta al capolinea. La sconfitta alle Finals coi Toronto Raptors, il lungo infortunio di Klay Thompson, out da giugno 2019 a gennaio scorso, l’addio di Kevin Durant (passato ai Brooklyn Nets) e i deludenti risultati della stagione 2019-2020 (ultimo posto con appena 15 vittorie e ben 50 sconfitte), infatti, sembravano rappresentare la chiusura di un’era dal notevole peso specifico, con cinque finali consecutive tra il 2014-2015 e il 2018-2019, di cui ben tre vinte (2015, 2017 e 2018).
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Se per il ritorno di Thompson ci è voluto ben più del previsto, i californiani sono ben presto tornati a esprimere tutta la qualità della loro pallacanestro innovativa e appassionante, finendo col recuperare terreno e tornare ai piani più alti della lega. Il tutto senza mai rinunciare ai propri principi e operando sul mercato con la consueta lungimiranza che ha permesso loro di pescare al Draft giocatori del calibro di Stephen Curry, Klay Thompson e Draymond Green – e, più recentemente, Jordan Poole e Jonathan Kuminga – e di dare fiducia al solido figlio d’arte Gary Payton II e al bistrattato Andrew Wiggins, recuperato sotto tutti i punti di vista dopo anni difficili coi Minnesota Timberwolves.
La scorsa notte, l’interminabile libro di storia scritto dalla franchigia della Baia si è arricchito di un altro entusiasmante capitolo, con i Warriors che hanno archiviato la pratica Boston Celtics e vinto il loro settimo titolo, nonché il quarto negli ultimi otto anni, al termine di una gara-6 dominata in lungo e in largo (103-90 il punteggio finale). Nella suggestiva cornice del TD Garden, inoltre, Stephen Curry ha potuto festeggiare anche la conquista del primo premio di MVP delle Finals della sua carriera, l’unico trofeo degno di nota che mancava alla sua vasta collezione.
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Il prestigioso riconoscimento individuale, infatti, gli era sfuggito in ben tre occasioni: 2015 (Andre Iguodala), 2017 e 2018 (Kevin Durant in entrambi i casi). Stavolta, però, la sua vittoria non è mai stata in dubbio, a fronte di prestazioni da incorniciare e numeri impressionanti. Salito in cattedra anche e soprattutto nella decisiva gara-6 (34 punti, 7 rimbalzi e 7 assist con 12/21 al tiro e 6/11 da tre), il numero 30 ha messo a referto medie di 31.2 punti, 6 rimbalzi, 5 assist e 2 palle rubate col 48% dal campo e il 44% da dietro l’arco nelle sei partite delle NBA Finals disputate quest’anno.
Oltre a ciò, la sua crescita esponenziale nella metà campo difensiva è sotto gli occhi di tutti ed ha fatto enormemente la differenza nei momenti di maggior difficoltà dei suoi. Golden State ha subito perso il fattore campo col ko in gara-1, è andata sotto 2-1 perdendo gara-3 al Chase Center di San Francisco, ma da quel momento non solo non ha più commesso errori pesanti, ma ha anche e soprattutto rialzato la testa, spinta da quella tempra forgiata in anni e anni di battaglie contro le migliori corazzate (e, di conseguenza, alcuni dei migliori giocatori) dell’NBA.
Drafted 7th overall out of Davidson in 2009, 8x NBA All-Star, 2x #KiaMVP… and now 4x NBA CHAMPION in Year 13.
First-time Bill Russell #NBAFinals MVP… Stephen Curry! #NBA75 pic.twitter.com/0xvQOmcAIl
— NBA (@NBA) June 17, 2022
Per Curry, così come per Klay Thompson, Draymond Green e Andre Iguodala, si tratta del quarto anello vinto in carriera, tutti con i Golden State Warriors. Eguagliato, tra i giocatori in attività, LeBron James (due titoli a Miami, uno a Cleveland e l’ultimo coi Lakers). Poker di vittorie anche per leggende quali Shaquille O’Neal, Manu Ginobili, Tony Parker, Horace Grant e Robert Parish. 34 anni compiuti lo scorso 14 marzo, Curry ha dimostrato ancora una volta tutte le sue qualità e, soprattutto, ha smentito chi sosteneva che non riuscisse ad essere un vero e proprio trascinatore al pari dei vari Michael Jordan, Kobe Bryant e il già citato LeBron James.
Nella sua già straordinaria legacy, dunque, il titolo di quest’anno non può che occupare un posto di rilievo. Quota quattro campionati NBA, da allenatore, anche per Steve Kerr, che ne può vantare anche cinque da giocatore (tre con i Chicago Bulls di Phil Jackson e due con i San Antonio Spurs di Gregg Popovich). Il 56enne, alla guida dei Warriors dal 2014, ha davanti a sé proprio i suoi due mentori (11 titoli per Jackson tra Bulls e Lakers, 5 per Popovich con gli Spurs), oltre a Red Auerbach (9 con Boston), John Kundla (5 coi Lakers quando giocavano a Minneapolis) e Pat Riley (5 tra Lakers e Heat).
5x champ as a player and now 4x NBA CHAMPION as a Head Coach… Steve Kerr! #NBA75 pic.twitter.com/jMGJzUnZKK
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Golden State era già nell’Olimpo del basket da tempo, ma con la vittoria in una stagione molto combattuta e incerta, peraltro sul campo della squadra con più titoli in bacheca, i Boston Celtics (17, a pari merito con i Los Angeles Lakers), ha senz’altro rafforzato la sua dimensione di squadra vincente. I Dubs staccano i Chicago Bulls, fermi a sei, issandosi al terzo posto in solitaria nella classifica delle franchigie più vincenti di sempre. Davanti a loro, soltanto le sopracitate Celtics e Lakers.
Dennis Izzo
Fonte foto in evidenza: Profilo Twitter NBA
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