Portare una corona sulla testa è gratificante, non c’è dubbio, ma alla lunga può risultare pesante, anche perché la pressione è tale da far mancare il fiato e basta un minimo passo falso per finire nel baratro delle critiche più feroci e difficili da digerire, mentre guadagnarsi la fiducia della gente è un’impresa che può richiedere un tempo notevole in cui la strada è quotidianamente piena di ostacoli da scansare. Per le ragioni sopraelencate e tutta un’altra serie di motivi, dunque, essere il migliore in qualcosa è un traguardo di cui è difficile potersi fregiare da un momento all’altro, e anche quando ormai anche l’ultimo gradino nella corsa al trono è stato scalato, un polverone di dubbi e obiezioni non fanno altro che rimettere tutto in discussione.
Alla luce di tutto ciò, immaginate quanto debba essere duro portare a termine un’impresa del genere per uno noto a tutti come «The King», il re, appunto. Il suo soprannome è tutto un programma e definisce al meglio LeBron Raymone James: due parole traducibili in mille e più significati, attraverso cui è possibile farsi largo nel magnifico universo del leggendario protagonista di una delle storie più emozionanti e significative non soltanto per ciò che concerne il mondo del basket, ma anche e soprattutto dal punto di vista umano, analizzando nel dettaglio le molteplici sfumature di un uomo che si è fatto da solo e che – partito dal basso che più basso non si potrebbe, o quasi – è riuscito ad arrivare in cima, coronando il suo sogno più grande.
Il piccolo LeBron cresce ad Akron, in Ohio, insieme alla mamma, fronteggiando notevoli difficoltà economiche. Sin dai tempi del liceo mette in mostra tutte le sue capacità nel basket, tanto che le sue gare vengono seguite addirittura da una media di 16.000 persone, un numero a dir poco impressionante trattandosi di un ragazzino che frequenta l’high school. Sono soltanto i primi passi di un uomo destinato a lasciare una traccia indelebile della sua forza sui parquet più prestigiosi della NBA: a 17 anni comincia ad assaporare la famosa lega statunitense, prendendo parte a degli allenamenti con i Cleveland Cavaliers.
Due anni più tardi una lieta coincidenza – ossia il fatto che i Cavs avevano chiuso la regular season 2002-2003 all’ottavo posto della Central Division della Eastern Conference (non riuscendo a qualificarsi per i playoff in virtù del negativo record di 17 vittorie e 65 sconfitte) – garantì alla squadra dell’Ohio la prima scelta assoluta al draft dell’anno seguente. Il debutto contro i Sacramento Kings fu da favola e diede il via all’ascesa della talentuosa ala piccola appena 19enne, che al suo primo anno si aggiudica l’NBA Rookie of the Year, premio che si assegna alla miglior matricola della stagione. La favola ha inizio: nel 2006 LeBron trascina i suoi ai playoff, a cui non prendevano parte da sette anni consecutivi, ma dopo la vittoria contro i Washington Wizards al primo turno, in semifinale di Eastern Conference i Detroit Pistons – vice-campioni l’anno precedente – riescono a imporsi per 4-3. Anche l’anno successivo i Cavaliers affrontano i Wizards al primo turno e passano in semifinale di Conference contro i New Jersey Nets, riuscendo in seguito a vendicarsi dei Detroit Pistons e a guadagnarsi l’accesso alla finalissima di NBA contro i San Antonio Spurs.
Questi ultimi, però, hanno la meglio, sconfiggendo con un pesantissimo cappotto (4-0) LeBron e compagni, nonostante i numeri impressionanti del numero 23 e una prova «jordanesca» (come la definì Steve Kerr, allora commentatore di TNT e attualmente alla guida dei Golden State Warriors) in gara-5 contro i Pistons, in cui realizza 29 degli ultimi 30 punti messi a referto dai suoi e chiude a quota 48 punti, 9 rimbalzi e 7 assist. Statistiche da capogiro, che fanno tremare i nomi storici della NBA e danno sempre più fiducia a LeBron, che non si lascia abbattere e continua a inseguire il suo sogno di vincere l’anello con i suoi Cavs. Nella stagione successiva vince il titolo di miglior realizzatore della NBA e diventa il più prolifico cestista nella storia dei Cavaliers, ma ai playoff è costretto ad arrendersi in semifinale di Conference al cospetto dei Boston Celtics. Anche nel 2009 nei playoff le cose non vanno nel verso giusto, con la sconfitta in finale di Conference per mano degli Orlando Magic. A rendere meno amara l’annata per The King è la vittoria del prestigioso riconoscimento di MVP, bissato nel 2010.
Ed è proprio quest’ultimo, probabilmente, l’anno più movimentato della sua elettrizzante carriera: l’ennesima eliminazione ai playoff è solo il primo atto che dà il via a un’estate torrida (e non per motivi climatici): al termine della stagione 2009-2010, infatti, LeBron finisce tra i free agent e il mancato accordo con i Cavaliers alimenta e non poco le voci che si susseguono circa il suo futuro. Le tante indiscrezioni lasciano il tempo che trovano, anche perché l’unica parola che conta è quella di The King. E quando parla lui, tutti ascoltano in religioso silenzio, prima di manifestare tutto il proprio stupore: proprio come quando il #23 incanta sul parquet. L’8 luglio 2010 James annuncia il suo trasferimento ai Miami Heat, all’epoca dei fatti una delle franchigie migliori della NBA, guidata dalla guardia Dwyane Wade e rafforzatasi – sempre nell’estate 2010 – con l’arrivo di un altro pezzo da novanta dai free agent, ossia Chris Bosh. Il trio magico mostra sin da subito un’ottima intesa e stavolta la conquista dell’anello appare poco più che una formalità per LeBron: tuttavia il sogno si conclude in finale di NBA contro i Dallas Mavericks del sempiterno Nowitzki. L’anno successivo è quello buono per gli Heat, con il numero 6 che in finale di Conference contro i Boston Celtics totalizza 45 punti, 15 rimbalzi e 5 assist e nell’ultimo atto contribuisce al 4-1 rifilato agli Oklahoma City Thunder, mettendo a referto una tripla doppia nella decisiva gara-5 e aggiudicandosi il riconoscimento di NBA Finals MVP. Lo stesso accade l’anno seguente, con i Miami Heat che stavolta battono in finale i San Antonio Spurs. The King legittima dunque nel migliore dei modi il suo soprannome, ma il richiamo del passato e delle origini non si può ignorare, in particolar modo non può farlo uno come lui, così legato alle sue radici da non essersene mai dimenticato.
E così, LeBron non si avvale della player option che gli avrebbe permesso di rinnovare per un altro anno con i Miami Heat, facendo ritorno ai Cleveland Cavaliers dopo quattro anni. L’ala piccola tiene dunque fede alla sua promessa, in quanto ai tempi di Miami aveva annunciato che sarebbe tornato presto a militare nei Cavs e che li avrebbe portati alla conquista del loro primo anello. Il sogno si tramuta in realtà nella stagione 2015-2016, in cui James trascina i suoi a un’insperata quanto storica vittoria in finale contro i Golden State, battendo in rimonta la franchigia californiana (da 1-3 a 4-3) e riscattano nel migliore dei modi la sconfitta subita l’anno precedente contro Curry e compagni. Prestazione eroica quella di The King, che si rivela impeccabile sia dal punto di vista difensivo che offensivo (rispedendo più volte al mittente i tentativi di Curry), offre un notevole saggio delle sue potenzialità e scoppia in lacrime dopo la vittoria del tanto agognato anello, che ha un sapore ancor più speciale rispetto ai due conquistati con i Miami Heat. Così The King si è ripreso la corona dei Cavaliers, dimostrando con i fatti tutto il suo amore per la squadra di Cleveland e aiutandola in maniera considerevole a diventare una delle squadre più temibili e meglio strutturate dell’intera NBA. Passano gli anni e sempre più novità attraversano la lega, ma l’unica costante dello spettacolare e affascinante torneo è proprio la presenza di LeBron James, che non smette di essere efficace e incisivo come ai tempi d’oro e che ha ancora tanta voglia di dimostrare a tutti di essere l’unico re della NBA.
E, proprio quando chiunque si sentirebbe appagato e si fermerebbe, LeBron continua a correre. La sua carriera, come del resto la sua vita, non conosce pause ed è un continuo andirivieni di gioie, soddisfazioni e traguardi che il classe ’84 si è guadagnato con tanto impegno e sacrificio, lavorando molto su sé stesso nel corso degli anni e non smettendo mai di avere fiducia nelle proprie potenzialità. Nella recente gara delle semifinali di Eastern Conference, James ha superato la leggenda Kareem Abdul-Jabbar nella classifica di punti segnati ai playoff, in virtù dei 39 punti messi a referto in 37 punti. Ora davanti a lui c’è soltanto un’altra leggenda, un certo Michael Jordan: LeBron punta a superare il maestro, per centrare l’ennesima impresa di una carriera che in una decina d’anni ha regalato immense soddisfazioni al numero 23 dei Cavaliers. Ma LeBron James non è soltanto in grado di farsi apprezzare per le sue doti tecniche sul parquet, ma anche e soprattutto per la fame di vittoria che traspare dal suo volto grintoso e battagliero e una personalità a dir poco determinata. E anche se ora è il re indiscusso della NBA e fa sembrare una passeggiata tutto ciò che fa, la sua scalata per arrivare a questi livelli è stata tutt’altro che semplice: una salita lunga e tortuosa e, soprattutto, ricca di insidie.
LeBron è stato abile nel dribblare pure quelle, riuscendo a guadagnarsi la prestigiosa corona di re del basket e inducendo numerosi appassionati ed esperti di pallacanestro a scomodare leggende del calibro di Michael Jordan per descrivere al meglio la brillante carriera vissuta fin qui da quello che fino a poco più di dieci anni fa era soltanto un ragazzino che sognava di giocare in NBA e che radunava quasi lo stesso numero di persone che oggi si recano in massa alla Quicken Loans Arena di Cleveland. Perché diventare una leggenda è un’impresa ardua per chiunque, in quanto il talento da solo non basta: servono anche e soprattutto il cinismo, lo spirito di squadra, la caparbietà e l’intelligenza tattica. Tutte qualità racchiuse in abbondanza nel gigante dell’Ohio, che ha intenzione di continuare a recitare ancora a lungo nello spettacolo più bello del mondo nel suggestivo teatro della NBA. E molto probabilmente non basterà questo appassionante viaggio nella carriera di un campione del genere per comprenderne appieno le molteplici sfaccettature, ma in questo senso anche la seguente frase da lui pronunciata potrebbe essere più che sufficiente: «Voglio essere il migliore di tutti i tempi, punto e basta».
Dennis Izzo
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Coordinatore editoriale di Voci di Città, nasce a Napoli nel 1998. Tra le sue tanti passioni figurano la lettura, i viaggi, la politica e la scrittura, ma soprattutto lo sport: prima il calcio, di cui si innamorò definitivamente in occasione della vittoria dell’Italia ai Mondiali 2006 in Germania, poi il basket NBA, che lo tiene puntualmente sveglio quasi tutte le notti da ottobre a giugno. Grazie a VdC ha la possibilità di far coesistere tutte queste passioni in un’unica attività.
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