Quando si parla di guerra e c’è di mezzo la vita delle persone è sempre una questione estremamente delicata stabilire la parte del torto e della ragione. Si può conferire ragione alla parte che, poiché costretta a doversi difendere con le sue sole forze, giurando eterna fedeltà e impegno ai propri valori umanitari e altruistici, ha impugnato le armi intraprendendo un percorso la cui meta è la libertà? Non è necessario che ognuno si elevi a scagliar sentenze, poiché per la stessa natura umana che ci contraddistingue, siamo legati dai medesimi limiti e debolezze. Privi di una sottile e incontestabile capacità di giudizio, sappiamo, tuttavia, di poter covare, in cuor nostro, quelle profonde speranze e sentimenti che ci permettono di distinguere il giusto dallo sbagliato, il buono dal marcio. C’è del marcio in ogni arma e in ogni goccia di sangue che essa ha fatto scorrere e non perché tutti sappiamo che in certi casi non c’era altra scelta, ma perché spesso non c’è la possibilità di scegliere, non c’è spazio per la diplomazia. Tra l’idea e l’azione scatta, in una dimensione atemporale, il grilletto di un kalashnikov, il fuoco di una granata, gli orrori di un raid.
Il YPJ – Unità Protezione delle Donne (dal curdo Yekîneyên Parastina Jin), è una milizia di sole donne formatasi nel 2012 in Rojava, la parte settentrionale della Siria di maggioranza curda, al confine con la Turchia. Il corpo militare ha appoggiato il YPG (Unità Protezione Popolare e il PKK (Partito Lavoratori Kurdistan) durante la resistenza del popolo curdo per liberare Kobane dal tentativo di assedio da parte dello Stato Islamico nel 2014. Si tratta di un movimento rivoluzionario e femminista che vede l’arruolamento di numerose giovani curde che, nella loro dura lotta, tentano un duplice riscatto: della figura della donna nel Medio Oriente e nel mondo, oltre a quello del popolo curdo. I curdi sono un gruppo etnico indoeuropeo che abita una regione mediorientale principalmente compresa tra Iran, Iraq, Siria, Turchia e Armenia. Da moltissimo tempo sono sottoposti ad un’ostile e macabra repressione da parte dei paesi che li ospitano, le quali vietano loro la formazione del Kurdistan, uno stato indipendente che reclamano impiegando in questa battaglia le loro intere vite, sacrificandole. Il Kurdistan occuperebbe una delle più ricche regioni, dal punto di vista dei giacimenti petroliferi, estendendosi nell’area tra il Tigri e l’Eufrate. Dall’altro lato, incombe come un mastodontico macigno la costante guerriglia operata dall’ISIS che, attraverso folli azioni terroristiche, prova ad attuare i suoi progetti per il Califfato in Siria e in Iraq.
Queste eroine curde lasciano i loro studi e i loro matrimoni combinati e giurano fedelmente di difendere il loro popolo, ma anche arabi, cristiani, turcomanni e yazidi.
Le guerriere dell’YPJ e i curdi in genere, non sono spinti da ideali nazionalistici, ma ambiscono alla creazione di uno stato democratico che vede la fratellanza e la collaborazione di ogni popolo. A dispetto di ogni aspettativa, e\o peggio pregiudizio, la particolarità di questi movimenti rivoluzionari sta proprio in una lungimiranza senza eguali, in un rispetto reciproco circa ogni credo religioso e ogni sfaccettatura della cultura di un popolo. Le donne si avvicinano alla milizia perché condurre la quotidianità, attualmente, le costringerebbe, nella maggior parte dei casi, a svolgere il ruolo di mogli obbligate al lavoro in casa e nell’ipotesi di una formazione di studi, sarebbero costrette ad intraprenderli in lingua araba, in quanto l’utilizzo della loro lingua è punito con severi provvedimenti. Violenze, stupri, torture e addirittura bombardamenti attraverso l’impiego di armi chimiche e, talvolta, deportazioni è tutto ciò che viene inflitto ad un popolo invisibile, privo di radici e di qualunque tipo di diritto o riconoscimento. Le famiglie delle suddette ragazze sono orgogliose del coraggio dimostrato e, paradossalmente, sembrano mostrare più preoccupazione per le figlie destinate al matrimonio piuttosto che per quelle destinate al fronte.
Una battaglia che non conta le gocce di sudore impiegate, poiché il diritto per l’uguaglianza delle donne non è certo visto con utopia, ma con profonda determinazione e audacia che permette loro di impugnare le armi e difendersi. Mentre la loro preparazione militare è gestita dal corpo femminile stesso, la cui comandante capo è Nessrin Abdallah, le guerre sono combattute al fianco dei loro compagni curdi e questa collaborazione è descritta associando alla parte maschile l’immagine delle braccia e a quella femminile l’immagine della mente: solitamente un uomo è più istintivo nell’utilizzo della violenza; la donna, invece, attende che non ci sia altra scelta, l’ultimo momento. Donne, la cui cultura prevede rispetto per qualunque forma di essere vivente, persino per il nemico; nemico che le costringe a difendersi in modo brutale. L’ISIS ha distrutto, con attacchi suicidi, le loro città, portando via le famiglie senza il minimo rispetto. L’YPJ riferisce come i combattenti che si trovano di fronte siano alterati, privi di uniforme, urlano «Allah è grande!» e gli si gettano contro senza effettivamente aver piena consapevolezza di cosa stia accadendo.
Fiere e orgogliose del loro ruolo, nei pochi giorni di libertà che possiedono per visitare le famiglie in città, gioiscono del rispetto conquistato quando, camminando per le strade, i loro concittadini abbassano lo sguardo riconoscendo la loro elevata posizione sociale. Donne divenute sorelle, unite da un legame perpetuato al di là della contingenza. Al momento YPJ, YPG e PKK, sostenuti da USA, sono impegnati nella liberazione di Raqqa, sotto il controllo dell’ISIS dal gennaio 2014. Nouri Mahmoud, portavoce del YPG, ha dichiarato «Le operazioni cominceranno nei prossimo giorni».
Giulia Sorrentino
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