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Televisione: da strumento educativo a diseducativo
06 Febbraio 2016
Tubo catodicoEntertainmentSocietas

Televisione: da strumento educativo a diseducativo

Home » Entertainment » Tubo catodico » Televisione: da strumento educativo a diseducativo
3 minuti (tempo di lettura)

Da strumento educativo a diseducativo: dagli anni cinquanta ad oggi la Televisione è cambiata a tal punto da trasmettere contenuti poco adatti, anche attraverso metodi poco ortodossi, diventando un potente strumento politico: è giunto il momento di dire basta?

Fermi tutti: la TV va nell’indifferenziata o nell’umido? Bella domanda, ed è anche troppo semplice definirla “spazzatura”, generalizzando. O forse no? No, non si generalizza per niente: questa TV è davvero spazzatura, urge solo capire in quale cestino gettarla. È il frutto (marcio) di un processo che, però, all’inizio mirava a traguardi ben diversi e maggiormente produttivi.

TVBasti pensare ai primi anni cinquanta quando, per intenderci, ci si riuniva in venti o trenta nel salotto di chi, più fortunato di altri, possedeva già quella famosa scatola attraverso il quale era possibile guardare volti e figure umane, così insolitamente vive da sembrare lì, a portata di mano: stupefacente. Non sono racconti dell’altro mondo: è la storia di un tubo catodico capace di trasmettere emozioni indescrivibili a una popolazione che, fino al decennio precedente, soffriva irrimediabilmente gli oneri della guerra.

Dalle macerie… alla ricostruzione: economica, psicologica e intellettuale. Il “boom” della bella vita e dei grandi affari di un’Italia che voleva rialzarsi e afferrare il mondo con due mani e farlo suo: in senso lato, chiaramente. Difficile, però, era il compito della nuova struttura sociale: quello di educare persone che avevano scordato di essere persone. Inizia così una vera e propria lotta all’analfabetizzazione, una guerra contro l’ignoranza: il mondo cessava di essere sconosciuto e programmi televisivi come le lezioni d’italiano del maestro Manzi (mirate a contrastare la continua diffusione dei dialetti) aiutarono gli italiani ad emanciparsi. Da Nord a Sud tutti guardavano la TV: verrebbe da dire che, a distanza di quasi cento anni, l’Italia vide la sua vera “unità”.

TVE la RAI (Radiotelevisione Italiana), ben lontana dall’attuale azienda produttrice di trasmissioni “in scatola e surgelate”, occupò un posto di rilievo in questo processo. Dal 1954, fenomeni come “Lascia o raddoppia?” e “La domenica sportiva”, e figure come Mike Bongiorno e Pippo Baudo furono capaci di tenere milioni di spettatori incollati a quello strato di vetro illuminato da un flusso continuo di luce. Ma i limiti non mancarono: giusti, però. “Carosello”, ad esempio, rappresentò una sorta di barriera oltre cui la popolazione di giovane età non poteva (metaforicamente) andare: si guardava la trasmissione e poi tutti a letto. E non è forse una forma di educazione questa?

Allora, come è stato possibile regredire in questo modo? Dalla trasmissione pubblica dei contenuti al canone e alla semi-privatizzazione di un intero universo multimediale il passo è stato breve. È come quando un toro, con poca leggiadria, entra in un negozio di cristalli: un passo va bene, l’altro pure, ma a rompere le esposizioni basta davvero poco. Le esigenze di un mondo sempre più veloce e consapevole obbligarono i produttori a una continua ricerca di format dalle visioni sempre più aperte. E la politica non rimase fuori.

TVTroppo semplice, infatti, sfruttare i vantaggi di un importante veicolo di informazioni e di idee, anche e soprattutto politiche. Ed è lì che il toro vacillò: o forse è stato un asino a cadere? Perché urtando un bicchiere, cadde tutto il servizio da tè, con conseguenze irrimediabili. L’ingresso di nuove aziende nel mondo della TV, sorrette dai poteri politici, portò una ventata d’aria inquinata in quell’ambiente nato per educare. Siamo tra gli anni settanta e gli anni ottanta: e non può essere un caso se, in quel periodo, trasmissioni come Carosello chiusero i battenti.

E imprenditori come Silvio Berlusconi sfruttarono appieno il terreno fertile: alla RAI fece allora compagnia Fininvest che, con Mediaset e la trasformazione di Telemilano a Canale 5, si presentò prepotentemente al mercato televisivo: «Salve, chiedevate forse reti apartitiche e una maggiore varietà dei contenuti? Eccoci», ma chiaramente le attese non vennero ripagate. Dagli anni novanta ad oggi solo bombe mediatiche. Pochi fuochi d’artificio, tanta commercializzazione di quei contenuti che, una volta, volevano solo alleviare le giornate. Tutti schiavi dei varietà e dei talk show: si parla di politica, del fatto o della tragedia del giorno, con tanto di interviste in esclusiva a colpevoli, complici, vittime (anche quelle decedute) e alle armi dei delitti. Perché è sempre utile intervistare un coltello: non si sa mai. E gli scoop, con l’ultimo fidanzamento della valletta di turno. Ah, già: le vallette, un tempo vestite, ma da “Non è la Rai” in poi sempre più spinte. Sembra quasi di assistere ad una continua parodia della vita umana: il vero problema è che loro non scherzano mica.

TVE poi i benedetti “diritti TV”: sempre prima dei diritti civili, chiaramente. A quelle pubbliche, allora, si sono aggiunte le Pay TV satellitari: «Vuoi un contenuto in esclusiva? Paga. Vuoi guardare il film uscito due settimane fa? Paga. Vuoi avere un tipo di spazzatura leggermente migliore di quello che ti propina la TV pubblica? Beh…no, per quello non possiamo aiutarti». E la satira? Limitata a pochi, sporadici episodi. Così come i programmi educativi: tanto, anche quelli sono a pagamento. E non è un caso se le nuove generazioni vengono educate a pane e parolacce: ma guai a guardare i cartoni animati giapponesi. Quelli no, troppo violenti: meglio guardare film o telefilm con scene osé in prima serata. Sì, meglio.

E la pubblicità infinita, tanto da far pensare che, in realtà, sia tutta un lunghissimo spot pubblicitario con stacchi e porzioni di programmi televisivi. È uno yogurt con pezzetti di frutta dentro: il problema è che, dagli anni ottanta ad oggi è stato lasciato in frigo, e adesso va gettato. Allora: va nell’indifferenziata o nell’umido?

 

Antonio Torrisi

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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