I Metallica tornano dopo sei anni dall’ultimo lavoro con 72 Seasons, undicesimo album della band losangelina. Dal lontano 1996, anno dell’uscita del disco Load, disco che cambiò quasi radicalmente il genere della band, ogni nuovo lavoro dei Metallica viene inesorabilmente messo in discussione. E 72 Seasons non fa eccezione.
Da Load, infatti, sono nate varie schiere di (non) ascoltatori della band californiana: i fan, gli impassibili, e i detrattori. I fan sono quelli che vorrebbero ogni anno un nuovo album. Gli impassibili sono coloro i quali, nel bene e nel male e senza troppe pretese, ascoltano con piacere i lavori dei Metallica. I detrattori, invece, sono coloro che dopo il 1991, se non addirittura dopo il 1988, li considerano morti musicalmente. Per farla breve: o li ami o li odi.
Per chi non lo sapesse, nel 1988 è uscito …And Justice for All, l’album più tecnico ed oscuro dei Metallica, nonostante il basso si senta pochissimo. Questa però è un’altra storia. Nel 1991, invece, ci fu la svolta epocale della band che la portò alla stesura del black album, e che, di conseguenza, ha influito sui futuri lavori.
La composizione feroce di …And Justice for All, dettata anche dalla rabbia per la scomparsa di Cliff Burton, mise in difficoltà il quartetto nei vari live. In parole povere fecero fatica a suonare quelle canzoni. E quindi la decisione di una composizione meno tecnica, a tratti più leggera ed anche più efficace che li fece spopolare nel mondo mainstream. Complice anche la direzione artistica del produttore musicale Bob Rock.
I Metallica sono la perfetta rappresentazione degli dèi scesi dall’olimpo troppo in fretta. Il notevole cambio di rotta visto come un affronto, come l’eroe mascherato che perde la propria maschera. Come un re che perde la propria corona. D’altronde sono tra i pionieri del thrash metal, tra le influenze di molti gruppi metal, e la ragione in questo disappunto è facilmente comprensibile.
Una delusione che coinvolge chi ha vissuto l’ascesa dei Metallica, e chi li ha scoperti nella fase metal adolescenziale. E continuare a pensare che un giorno ritornino i Metallica dei primi quattro album è pura illusione. A loro sta bene così, ed anche ad una buona fetta di fan. A loro non interessa competere con i Megadeth, a loro interessa suonare. Comunque vada, la pagnotta a casa la portano.
Fatta questa breve premessa, parliamo di 72 Seasons. Sicuramente non è un capolavoro, sicuramente si poteva fare di meglio. Partiamo da cosa vuol dire il titolo del disco:
“Le 72 stagioni sono i primi 18 anni della nostra vita che formano il nostro vero o falso io. Il senso esistenziale del “chi siamo” ci è stato inculcato dai nostri genitori. Penso che la parte più interessante di questo sia l’approfondimento di quelle convinzioni fondamentali e di come influenzano la nostra percezione del mondo una volta cresciuti. Gran parte della nostra esperienza adulta è rievocazione o reazione a queste esperienze infantili. Siamo prigionieri dell’infanzia o liberati da quei legami che portiamo“
L’album sembra un voler riabbracciare le composizioni che li hanno reso grandi nel panorama del thrash metal. La title track, infatti, sembra un tributo ai pezzi presenti in Kill ‘Em All, sia dal sound che dalla potenza del riff, stesso discorso per Lux Æterna. Ed a proposito di riff, You Must Burn sembra un tributo a Sad But True del black album.
La linea di basso presente nella quarta traccia Sleepwalk My Life Away, porta un po’ di freschezza in un album a tratti anonimo e con poca personalità. La maggior parte dei brani presentano ritmi piuttosto punkeggiante Per il resto, l’album si presenta buono, alla Metallica, anche se alcune canzoni risultano inutilmente prolisse. Tutto sommato l’album merita un ascolto, anche se, come detto prima, alcuni pezzi sanno di già sentito.
Menzione speciale per l’ultima traccia Inamorata. Le ultime tracce degli album, di solito, sono quelle che devono discostarsi da tutte le canzoni precedenti. Infatti una tipica composizione alla Metallica diventa una jam improvvisata dai componenti della band. Gli assoli dalle sfumature blues di Kirk Hammett rendono decisamente meglio, come anche il basso sognante di Robert Trujilio a partire dal quinto minuto della canzone. E la sinergia dei quattro compressa in questo pezzo di undici minuti riportano ai fasti di un tempo.
I testi scritti dal frontman James Hetfield riguardano sempre i problemi dell’esistenzialismo. Come appunto affermava nel significato del nome dell’album, tutto ciò che viene messo nero su bianco sono tormenti che la persona si porta dall’infanzia e dall’adolescenza. Quindi nonostante l’età dei quattro musicisti, andare a scavare nei meandri del cervello per ripescare ricordi mai persi totalmente, è servito per la stesura dell’album.
Temi ovviamente già trattati negli altri lavori, la penna va dritto al punto. Sa attaccare e sa difendersi, e come esempio si cita nuovamente la title track: Nutrendosi dell’ira dell’uomo, abbattuto, traumatico, il tempo perseguitato dal passato, ormai lontano, dogmatico, anche se il dado è tratto.
Strofa originale: Feeding on the wrath of man, shot down, traumatic, time haunted by the past, long gone, dogmatic, although the die is cast.
Lo stato catatonico presente in Sleepwalk My life Away: Fai un respiro profondo e che ti risvegli, spera che arrivi il sangue, brucio i miei occhi con il sole, e fingo di essere vivo, non apparirà mai, forte come il desiderio passato, la luce che scalda scompare, come un fuoco freddo e morto.
Strofa originale: Take a deep, waking breath, hope the blood arrives, burn my eyes with the sun, and pretend I’m alive, tt never will appear, strong as past desire, light warming disappears, like a cold, dead fire.
Del disincanto della propria vita in Crown of Barbed Wired: Questo impero arrugginito che possiedo, sanguino mentre arrugginisco su questo trono, mi trafigge con il tormento, e tutta la ruggine che possiedo.
Strofa originale: This rusted empire I own, bleed as I rust on this throne, pierce me with torment, and all the rust that I own.
Non possono mancare poi riferimenti alla depressione in Chasing Light, di un individuo che insegue la luce, o all’odio come in If Darkness Had a Son, con il soggetto colmo di rabbia che cerca di reprimere tentativi di compiere azioni malvagie.
Per concludere: 72 Seasons non è un lavoro malvagio, è un lavoro alla Metallica post era ’91. Non vale nemmeno la pena di parlare di disillusione: il loro obiettivo era tornare a fare heavy/thrash metal nel loro stile dopo St. Anger e Lulu, album probabilmente non capito. Almeno, però, hanno perso la tamarraggine di Load e Reload, e questo li rende meritevoli di essere ascoltati ed essere anche, giustamente, ascoltati con l’orecchio critico.
Simmaco Munno
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Nato e cresciuto a Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, quando il grunge esplodeva a livello globale, cioè nel ’91, e cresciuto a pane e pallone, col passare del tempo ha iniziato a sviluppare interessi come la musica (sa mettere le mani almeno su tre strumenti) la letteratura e la linguistica. Con un nome provinciale e assonante con la parola sindaco, sogna di poter diventare primo cittadino del suo paese per farsi chiamare “Il sindaco Simmaco”.