Sull’intera comunità mondiale negli ultimi anni si è abbattuta una tremenda crisi finanziaria. Una delle conseguenze più drammatiche è che essa sta compromettendo uno sviluppo sociale e civile che si credeva inarrestabile e, perlopiù, ad esserne coinvolte sono le nuove generazioni. Tutto cominciò nell’estate del 2007 con la cosiddetta “crisi americana dei mutui immobiliari” che, a condizioni molto poco favorevoli per i debitori, portò alla bancarotta e alla chiusura di alcuni famosi istituti di credito come la Lehman Brothers e la Goldman Sachs. Nell’arco di pochi mesi la crisi si è poi estesa all’Europa e al resto del mondo, e da allora una vera e propria reazione a catena si è innescata portando alla sfiducia dei mercati borsistici e ad una elevata inflazione a livello mondiale. In circa due anni, poi, la ricchezza interna di molti Paesi è crollata, a cominciare proprio da alcune realtà occidentali, che negli ultimi tempi pensavano avere un benessere tale da considerarsi costantemente in crescita. Nel 2011 Paesi come Portogallo e Grecia hanno dovuto fare i conti con una situazione disastrosa, a causa dell’allargamento della crisi dei debiti sovrani e la conseguente influenza sulla finanza pubblica. Il rischio di insolvenza è stato evitato solo grazie ad interventi da parte degli altri Stati della cosiddetta Eurozona.
L’economia mondiale è periodicamente percorsa da crisi. In campo economico la parola crisi definisce in genere un calo dell’attività economica, con un passaggio da una fase di espansione e di crescita a una fase di depressione. Secondo alcuni studiosi – soprattutto di ispirazione marxista -, le crisi economiche che si manifestano periodicamente sono la logica, ineluttabile conseguenza, del modo in cui è organizzato e funziona il sistema capitalistico, affermatosi in Europa e in seguito nel resto del mondo a partire dal XVIII secolo; altri studiosi preferiscono invece analizzare di volta in volta le ragioni particolari del loro manifestarsi; altri ancora si spingono fino a sostenere che, sia pure in forme diverse, il sistema capitalista non sia un fenomeno moderno, nato con la rivoluzione industriale, ma molto antico.
Attualmente l’epicentro di una nuova crisi economica è l’Europa, anche se le prime avvisaglie dell’attuale crisi si sono verificate negli Stati Uniti tra il 2007 e il 2008. Ma, mentre negli Stati Uniti c’è stato un avvio di ripresa, la situazione dell’Europa si è aggravata negli anni successivi. A partire dal 2010, chiunque apra un giornale italiano (ma non solo) si rende subito conto che vi è un numero elevato di pagine dedicate alla crisi, ai suoi elementi costitutivi, ai dibattiti anche aspri tra economisti e politici sia sulle ragioni che l’hanno originata e, soprattutto, su quali siano i mezzi più efficaci per combatterla. Sta di fatto che i dati numerici sulla produzione, sulla disoccupazione, sull’inflazione erano tali, verso la fine del 2011, da far ritenere la Grecia vicina al default (di fatto, al fallimento economico dello Stato), e gravemente pericolanti altri Paesi come l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna, l’Italia. Anche se non siamo abituati a questa idea, è bene sapere che anche gli Stati, come le aziende, possono fallire. Per molto tempo si è stentato a riconoscere la gravità della crisi attuale: alcuni, infatti, tendevano a minimizzarla come una sorta di malattia passeggera, mentre altri la paragonavano alla crisi del 1929 o la ritenevano ancor più pericolosa.
Oggi l’importanza e la gravità della crisi sono universalmente riconosciute, anche perché sono stati e sono evidenti i suoi effetti politici, come la caduta di alcuni governi (ad esempio basti citare il caso italiano che, negli ultimi anni, ha visto succedersi diversi governi: da Berlusconi a un governo Monti passando poi per Letta e arrivando al più recente Matteo Renzi). La crisi dei nostri tempi ha anche fatto esplodere una discussione che già esisteva sulla mancanza di una comune politica europea. Si era sottolineata più volte questa mancanza nei campi della politica estera, della difesa, della sicurezza. Di fronte alla crisi il tema principale è diventato quello della direzione dell’economia, vale a dire della mancata elaborazione di regole comuni a tutti i Paesi dell’Unione. Da qui, la fragilità di una moneta comune non accompagnata da passi adeguati in direzione di un’unità anche economica più generale ma soprattutto politica. Il quadro delle discussioni sulla crisi attuale non sarebbe completo se dimenticassimo le idee e le iniziative di un gruppo di singoli studiosi e di movimenti che teorizzano il fatto che la crisi affondi le sue radici più profonde non nei problemi che abbiamo fin qui esaminato, ma in un rapporto scorretto fra uomini e Natura: un rapporto fondato su uno sfruttamento cieco delle risorse, indifferente al loro esaurirsi e quindi alla sorte delle future generazioni. Questa tendenza propone una sorta di rivoluzione culturale che introduca un maggiore rispetto della Natura e modi diversi di produrre e di consumare. Si tratta, per ora, di una tendenza fortemente minoritaria e tuttavia in crescita soprattutto in alcuni campi, come quelli dell’ecologismo e delle energie alternative. Quel che è certo è che solo il futuro ci dirà verso quale direzione l’Europa sceglierà di andare e se le innovazioni che si profilano oggi non saranno solo un effimero riflesso di sopravvivenza o se si consolideranno. Ma la pressione degli eventi è reale e offre comunque un contesto inedito per la ridefinizione delle politiche monetarie, economiche e sociali dell’Unione Europea. Un contesto certamente rischioso, ma comunque pieno di opportunità.
Enrico Riccardo Montone
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