Grandi passi avanti sui fronte dei diritti umani nella Repubblica del Sudan: una serie di modifiche legislative fa avanzare il paese su numerosi temi democratici, dalla parità di genere alla libertà di culto. Le misure sono state ufficialmente annunciate l’11 luglio dal Ministro della Giustizia in carica Nasredeen Abdulbari: esse rappresentano il primo grande risultato di un complesso processo di riforma legislativa e culturale guidato dal premier Abdalla Hamdok e iniziato dopo la destituzione del dittatore Omar al-Bashir, avvenuta lo scorso anno dopo 30 anni di regime (a partire dal 1989). Buone notizie che si inseriscono in una cornice drammatica: è saltata propio nella giornata di martedì la firma dell’accordo tra la coalizione ribelle e il governo sudanese, dopo che lo scorso 13 luglio, a Fata Borno (nel Darfur settentrionale), una serie di attacchi congiunti a un insediamento per sfollati ha provocato 9 vittime civili e 17 feriti.
Alcune delle novità legislative più significative riguardano i diritti delle donne: vietate le mutilazioni genitali femminili, che secondo statistiche recenti riguarderebbero 9 donne sudanesi su 10 (di età compresa tra i 15 e i 49 anni). La pratica potrà ora essere punita fino a tre anni di carcere.
Le madri non avranno inoltre bisogno della presenza del marito per spostarsi in spazi pubblici insieme ai propri figli.
Cancellata la norma che prevedeva il divieto di consumo di alcolici anche per i non musulmani: essi rappresentano attualmente circa il 3% della popolazione. Festeggiano così gli etilisti atei, agnostici e di altre fedi, ai quali è ora consentito bere, importare e vendere alcol: fino a questo momento, i bevitori abusivi erano costretti a fabbricare artigianalmente i propri alcolici.
Il passo più eclatante rientra nell’ambito della libertà di culto. L’apostasia, ovvero il ripudio del proprio credo religioso, è ora una libertà riconosciuta dallo stato (grazie all’abrogazione dell’articolo 126 del 1991) e non sarà più punita con la morte. La questione aveva raggiunto il dibattito internazionale grazie al caso di Meriam Yehya Ibrahim, giovane donna sudanese condannata alla pena di morte a causa del suo matrimonio con un cristiano, nel 2014.
Attualmente, in Sudan, la pena capitale può ancora essere applicata per i reati di omicidio, rapina a mano armata, possesso o traffico di armi, prostituzione e “atti che mettano in pericolo l’indipendenza e l’unità dello Stato” (alto tradimento).
Agata Virgilio
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