Siamo a Londrina, Brasile. Ai molti questo nome non dirà nulla, è una città poco conosciuta. Conta quasi mezzo milione di abitanti, è immersa nelle vaste pianure del sud-ovest del paese. Un posto perfetto per riciclare denaro. È proprio qui, a Londrina, che prende vita il più grande scandalo di corruzione che abbia mai colpito il Brasile. Nasce l’Operação Lava Jato, l’Operazione Autolavaggio: la Mani Pulite carioca che porta alla scoperta di un tesoro da 4.000 milioni di dollari. Il tutto parte a Londrina, a 400km da San Paolo, in un ufficio anonimo dove tre piccoli cambisti ripuliscono denaro sporco.
La polizia federale del Paranà sa bene cosa fanno. Ogni tanto li ferma, li interroga e poi li lascia liberi in cambio di informazioni sui clienti che riciclano dollari sporchi. Questa era la tipica routine. Tipica almeno fino a quando una piccola struttura, composta da un magistrato, un commissario e due giovani poliziotti, decide di investigare. «Stavamo lì tutto il giorno ad ascoltare ore e ore di chiacchiere al telefono e negli ambienti in cui avevamo piazzato delle cimici. Stavamo addosso a tre riciclatori di Londrina» dice Marcio Adriano Anselmo, commissario di Curitiba, a L’Espresso. A capo della struttura c’è Sergio Moro, 44enne magistrato di chiare origini italiane. Dopo essersi specializzato in reati finanziari, siede nel Tribunale Federale criminale numero 13 di Curitiba. Moro ha letto tutti gli atti di “Mani pulite”, si è messo in contatto con la Procura di Milano e con il vecchio pool del ’92. «È vero. Sono appena tornato dal Brasile. Non è la prima volta. Del resto, quella di Lava Jato è una storia già vista» ha detto Antonio Di Pietro, sempre a L’Espresso. «Ho parlato a lungo con il Procuratore generale. Paragonare Lava Jato a Mani pulite è riduttivo ma il sistema imprenditoriale e quello politico agiscono per gli stessi interessi distraendo soldi pubblici».
Di Pietro è convinto che ormai il sistema delle tangenti fra imprenditori e politici sia diffuso a livello planetario. «Esistono società, paesi, banche, istituzioni finanziarie, personaggi, che ricorrono in tutte le inchieste del mondo. C’è una struttura internazionale che agisce secondo schemi precisi e sperimentati». Uno schema meticolosamente organizzato: c’è chi pensa a riciclare, chi raccoglie i soldi, chi li lava, chi li rimette nel circuito legale, chi distribuisce le tangenti. «Quello che vedo», continua Di Pietro «è il tentativo di delegittimare il lavoro della magistratura. Accade in Brasile, è accaduto in Italia. L’obiettivo è chiaro: non si tratta di una guerra tra guardie e ladri ma di un banale scandalo su cui qualcuno vuole costruire una carriera. Le ricorda qualcosa? Anche questa è una storia già vista. Ai colleghi brasiliani lo dico sempre. Li avverto. Qui non si tratta di Brasile o Italia. Accade perché il sistema è collaudato a livello mondiale».
Fra le tante intercettazioni, uno dei due poliziotti si accorge che tale Carlos Habib Charter, contatta spesso un certo Alberto Youssef, nome che ricorre spesso durante le trascrizioni. Youssef era già noto per un altro scandalo di corruzione di cui lui era l’organizzatore, portato alla luce nel 2004 con l’operazione “Banestado”. Oggi come allora, il giudice era sempre lui, Sergio Moro. Appresa questa scoperta, scattarono i primi provvedimenti. «All’inizio non potevo credere che tra tutte quelle intercettazioni spuntasse il suo nome: era il risultato più importante di tutta la nostra indagine. Ma non avrei mai pensato che dietro si potesse nascondere lo scandalo corruttivo più devastante di tutta la storia del Brasile» confida il commissario Anselmo. Spunta anche il nome di Nelma Kodana, nota a tutti come la “Signora della Borsa”, una maga dei cambi di San Paolo: muoveva milioni con disinvoltura, serviva i più importanti affaristi del mondo dell’import/export.
Lo scandalo esplode: vengono coinvolti 70 imprenditori e 130 tra deputati e senatori. L’intero sistema delle costruzioni brasiliane e mezzo Parlamento. Si arriva fino a Dilma Rousseff, che viene trascinata nello scandalo con l’accusa di alterazione del bilancio pubblico. Lo scandalo raggiunge anche Inácio Lula da Silva, capo del Partido dos Trabalhadores (PT), ex presidente del Brasile, che viene rinviato a giudizio per riciclaggio e corruzione. Tutto ciò gira intorno a un unico, grande nome: Petrobras, la grande impresa petrolifera pubblica. Le indagini portano a scoprire che Youssef comprò una auto da 115mila dollari per conto di Paulo Roberto Costa, ex direttore di uno degli stabilimenti di raffinazione dell’industria statale. Questa, però, era una cifra che un funzionario non poteva permettersi. Scavando nelle carte, si scoprì che nel 2004 il potente ex deputato del Partito Progressista a Londrina, José Janene, aveva piazzato Costa al vertice di uno degli stabilimenti della Petrobras. Tale Janene, era un socio occulto del riciclatore Carlos Habib Charter, a sua volta socio di Youssef. «Per la prima volta capimmo che si trattava di uno scandalo con una portata storica» disse il commissario Anselmo. Le carte sequestrate aprono un vaso di Pandora: ci sono migliaia di fatture con la stessa, generica dicitura.
I trasferimenti di denaro dal Brasile verso l’estero avvenivano tramite cento società di comodo che gestivano conti correnti bancari con milioni di dollari. Le società simulavano importazioni ed esportazioni con lo scopo di muovere il contante. Tuttavia, i bonifici emessi non saldavano alcuna partita di prodotti e nessun servizio erogato. Secondo le indagini, il denaro riciclato proveniva principalmente dal traffico di droga e di diamanti e solo in parte dalle commesse pubbliche. Il denaro veniva pulito e tornava indietro seguendo il filo a ritroso, e poi veniva distribuito con un sistema difficile da scoprire: impianti di benzina, lavanderie, hotel. Un passaggio fondamentale è rappresentato dal 17 marzo 2014. In questa data esplode il “petrolão”. La polizia federale di Curitiba arresta 24 persone per evasione fiscale. Salta fuori anche la Petrobras, dopo aver scoperto che Paulo Roberto Costa, arrestato anche lui, stava distruggendo le carte dei suoi rapporti con Youssef. Entrambi rischiano fino a 20 anni di carcere. Vista la situazione, Youssef e Costa decidono di parlare. Così facendo, si attiva la figura del collaboratore, che prevede forti sconti di pena, appunto, a chi collabora. Entrambi tirano fuori il nome dell’amministratore delegato dell’impresa di ingegneria Toyo-Setal, ovvero Giulio Camargo. È lui che porta alla scoperta dell’esistenza di un “club” di tredici imprese di costruzioni che si dividevano i contratti per la realizzazione degli impianti dell’industria petrolifera di Stato. Fra questi tredici, ci sono otto delle dieci maggiori imprese del paese, che contribuiscono a metà del Pil.
La svolta decisiva arriva il 14 settembre scorso. Lo scandalo esplode definitivamente: i dirigenti di ventuno grandi imprese del paese sono arrestati per corruzione e riciclaggio, accusati di aver intascato 23 mila milioni di dollari come tangenti dalla Petrobras. Questo giorno viene ribattezzato come il “Giorno del Giudizio finale”, giusto 24 ore prima del giorno della festa per la proclamazione della Repubblica. Una montagna di denaro passava per un piccolo sportello di cambia valute in una stazione di servizio alla periferia di San Paolo. Il proprietario era Alberto Youssef. Il tipico negozio anonimo, come tanti altri, in una città poco conosciuta. Quello che è successo dentro, però, ha segnato e cambiato un paese intero.
Marco Razzini
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