New York, USA – Per la prima volta, dopo l’attentato dell’ 11 Settembre, lo spettro del terrorismo si abbatte nuovamente sulla città simbolo degli Stati Uniti. Sayfullo Saipov (29), cittadino di origini uzbeke, residente a Paterson, New Jersey – un sobborgo industriale a 40 km da Manhattan – investe e uccide otto persone, avendo invaso una pista ciclabile sulle rive del fiume Hudson con un furgone preso a noleggio presso un Home Depot.
L’attentato di Saipov, rivendicato immediatamente dall’ISIS, si aggiunge ad una triste lista di altri atti terroristici avvenuti negli ultimi mesi: basti pensare a quello delle Ramblas di Barcellona o alle stragi di Nizza e Berlino, in particolare, per il medesimo modus operandi del lanciarsi, con furgoni rubati o noleggiati, in zone altamente frequentate da pedoni.
Neutralizzato e arrestato dalla polizia di New York, Saipov ha rinunciato al diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere, dichiarando agli inquirenti di aver deciso di agire dopo essere stato ispirato da alcuni video in cui Abu Bakar al-Baghdadi chiamava alla lotta armata i «combattenti dello Stato Islamico negli Stati Uniti e nel mondo»; gli inquirenti hanno successivamente trovato tali video e altro materiale di propaganda ISIS nel suo cellulare. Secondo quanto riporta la BBC, Saipov avrebbe anche confessato di aver voluto inizialmente esporre la bandiera dello Stato Islamico sullo stesso furgone ma di avervi rinunciato perché l’avrebbe reso «troppo appariscente».
Nonostante le indagini siano ancora in corso e la giustizia di New York sia stata molto attenta a non strumentalizzare l’accaduto per evitare ripercussioni negative – soprattutto a livello politico e sociale – altrettanto non si può dire del tribunale del web che ha preso vita sui social e, in particolare, su Twitter.
Tra i tanti post che si sono spesi sulla vicenda, nessuno ha fatto più clamore di quelli del Presidente degli Stati Uniti: come di consueto, Donald Trump non ha perso tempo per dire la sua attraverso la sua piattaforma preferita, chiedendo a gran voce la condanna a morte per Saipov.
NYC terrorist was happy as he asked to hang ISIS flag in his hospital room. He killed 8 people, badly injured 12. SHOULD GET DEATH PENALTY!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 2 novembre 2017
Inutile dire che il post ha suscitato diverse reazioni in seno all’opinione pubblica sia americana che internazionale: basta vedere le infinite risposte al twit del Presidente statunitense per farsi un’idea della risonanza che ha avuto l’attentato di New York. Inutile anche dire che nessuna delle parole scritte nel post è usata a casaccio: se c’è qualcosa di cui Trump è capace, è sicuramente quella di sfruttare i social per far passare i suoi messaggi attraverso una dialettica oltraggiosa e dissacrante, con buona pace della retorica politically correct oggi imperante. Il motivo per cui Twitter e i media americani sono letteralmente scoppiati alle dichiarazioni di Trump, tuttavia, non è l’ormai solita ondata di indignazione liberale che colpisce ogni azione del Presidente americano ma una ragione ben più grave: con la serie di post, Trump potrebbe aver compromesso qualsiasi possibilità per Saipov di ottenere un giusto processo.
«Affermare apertamente che Saipov meriti la pena di morte, addirittura prima che sia stato sottoposto a processo, influenzerà senza alcun dubbio la giuria. […] È estremamente deludente e non è assolutamente il modo in cui funziona il sistema» ha spiegato – per il The Guardian – Anna Cominsky, professoressa alla New York Law School.
È proprio per questo motivo che i Presidenti americani, solitamente, si astengono dal commentare casi di particolare rilevanza mediatica ancora in corso; è ovvio che il peso di eventuali dichiarazioni possa influenzare indebitamente i giurati e mettere in discussione la validità dello stesso processo: cosa che accadde nel 1970 quando l’allora Presidente Nixon dichiarò colpevole e chiese la pena di morte per Charles Manson, aprendo così alla difesa la strada del ricorso per chiedere l’annullamento della sentenza (il giudice, in ultima istanza, negò il ricorso), il che fu definito dalla stampa dell’epoca come un «atto di errante stupidità».
Would love to send the NYC terrorist to Guantanamo but statistically that process takes much longer than going through the Federal system…
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 2 novembre 2017
Non è, tuttavia, la totale ignoranza di Trump in materia a dover sorprendere più di tanto, si parla pur sempre dello stesso soggetto che avrebbe chiesto al proprio Procuratore Generale se potesse concedersi l’amnistia da solo; ciò che dovrebbe far preoccupare, invece, è l’assoluta noncuranza e il chiaro ripudio dei diritti umani basilari che ha esibito in questa situazione, celandoli dietro la maschera del personaggio non politicamente corretto. Circostanze che si sono ripetute, tali e quali, nell’ordalia giudiziaria riguardo al velatamente razzista Travel Ban.
Lapidarie sono le parole dell’avvocato di Saipov, David Patton che, raggiunto dal The Telegraph, ha dichiarato: «Il modo in cui tratteremo Saipov ci dirà molto di più su di noi, di quanto ne potrà mai dire su di lui».
Patton ha ragione. Il mondo intero guarderà come gli Stati Uniti si comporteranno davanti a tale situazione, ben memori delle infinite violazioni dei diritti umani che questi hanno commesso durante l’amministrazione Bush, con il famoso Detainee Treaetment Act, nei confronti dei prigionieri spediti e detenuti a Guantánamo: ipotesi con cui ha flirtato lo stesso Trump riguardo al caso di Saipov, salvo poi escluderla perché «il processo è più lungo di quello del Sistema Federale».
C’è anche da dire che il Presidente americano non è minimamente nuovo a dichiarazioni di questo tipo. Nel 1989, alla vigilia di uno degli episodi di cronaca che più scossero l’opinione pubblica americana, il caso dei Central Park Five, Trump acquistò spazi pubblicitari dal valore di 85.000$ su quattro quotidiani newyorkesi invocando la pena di morte per cinque ragazzi di origine afroamericana e messicana, accusati di stupro e lesioni ai danni di Trisha Meili, vice presidente di una branca della Salomon Brothers. I cinque ragazzi furono poi prosciolti dalle accuse dopo aver già servito dai 6 ai 15 anni in prigione.
Davanti a tali esempi e davanti a così lampanti campagne di strumentalizzazione di simili tragedie, risulta superfluo anche analizzare il perché la pena di morte non rappresenti uno strumento valido di giustizia in queste circostanze: si potrebbe sottolineare come la pena capitale per i terroristi venga sfruttata per renderli dei martiri, creando quel sempre maggiore supporto popolare cui questi soggetti attingono per portare avanti gli attentati che oggi dilaniano l’Occidente. Tuttavia, in simili contesti, diventano considerazioni vaghe e, perdendo significato, rischiano di essere assorbite da quella valanga di critiche di chi, riconoscendosi nella retorica trumpista, con la scusa di affermarsi contro il politically correct, nega i fondamentali valori e diritti della persona umana: unico elemento che, in realtà, ci distingue dall’intransigenza fondamentalista degli stessi terroristi che cerchiamo di sconfiggere.
Francesco Maccarrone
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