«La scomparsa del cittadino Jamal bin Khashoggi ha attirato l’attenzione dei massimi livelli del Regno dell’Arabia Saudita e, a causa delle circostanze che la circondano, il Regno ha preso le misure necessarie per accertarne la verità mandando un team in Turchia il 6 ottobre 2018 per investigare e cooperare con le autorità turche». Questo è l’incipit del comunicato emesso dall’ambasciata saudita circa la scomparsa di Jamal Khashoggi e il suo presunto omicidio da parte di agenti dell’intelligence saudita avvenuto il 2 ottobre 2018.
Ciò che fino a qualche giorno fa erano solo sospetti sono da oggi diventati realtà: Jamal Khashoggi è morto. A confermarlo è lo stesso governo saudita che riferisce di «un diverbio e una colluttazione che hanno portato alla morte» del giornalista del Washington Post.
La ricostruzione degli inquirenti sauditi ha portato all’arresto di diciotto ufficiali, tra cui il consigliere di corte Saud al-Qahtani e il capo dell’intelligence Ahmed Asiri. Secondo quanto emerso da un’indagine interna, il team che ha incontrato Khashoggi nel consolato di Istanbul sarebbe stato mandato in Turchia con un’offerta di ritorno in patria per il giornalista esiliato. Le negoziazioni sarebbero durate poco e presto alcuni membri della task force avrebbero fatto uso di violenza e minacce nei confronti di Khashoggi.
Gli inquirenti sostengono che, successivamente, sarebbe stata presentata una finta relazione nella quale i membri del team riferissero del rifiuto dell’offerta da parte del giornalista e che questi avesse abbandonato il consolato poco dopo.
La versione ufficiale rilasciata dall’ambasciata, tuttavia, contraddice palesemente le precedenti dichiarazioni fatte da Riad nelle ultime settimane. Secondo quanto riportato da Reuters e dal New York Times, nonostante il governo saudita abbia anche rilasciato dei documenti da cui si evince l’esistenza di un piano per il pacifico ritorno in patria dei dissidenti politici, lo scetticismo sulla ricostruzione è molto elevato. Riad, infatti, si sarebbe servita dell’aiuto di una c.d. troll-farm per spargere dubbi sulla vicenda di Khashoggi e per influenzare l’opinione pubblica (soprattutto internazionale) della sua innocenza; tattica impiegata sin dal 2010 su ordine di Saul al-Qahatani.
Just spoke with the Crown Prince of Saudi Arabia who totally denied any knowledge of what took place in their Turkish Consulate. He was with Secretary of State Mike Pompeo…
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) October 16, 2018
Nonostante questi sforzi, la comunità internazionale pretende delle risposte e – in particolare dagli Stati Uniti – si levano le voci di chi vuole chiarezza sulla morte di Khashoggi.
Il Presidente americano ha denunciato la mancanza di serie misure adottate dall’Arabia Saudita in merito alla morte del giornalista. «È ovvio che abbiano mentito […] le loro spiegazioni non seguono un filo logico». In pieno stile Trump, il Presidente ha oggi cambiato improvvisamente rotta sulla vicenda lodando gli sforzi del principe saudita Mohammed bin Salman «(il principe) ama davvero il suo paese […] è uno che ha sempre tutto sotto controllo, in senso positivo».
Dalla Casa Bianca, la portavoce Sarah Huckhabee Sanders commenta la vicenda confermando gli sforzi americani circa le indagini sulla morte di Khashoggi «continueremo a seguire la situazione da vicino e spingeremo affinché sia fatta giustizia […] nel rispetto dei principi di un giusto processo».
La Cancelliera tedesca Angela Merkel ribadisce il suo scetticismo nei confronti della risposta saudita in merito alle domande della comunità internazionale, tanto da definirla «insoddisfacente» e richiede – unitamente a Francia e al resto dell’Unione Europea – un’investigazione dettagliata in merito alla morte di Khashoggi e agli avvenimenti del 2 ottobre.
Francesco Maccarrone
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