Negli ultimi anni non è stato infrequente vedere, sulle pagine dei maggiori quotidiani internazionali, titoli che annunciassero a lettere cubitali l’arrivo di una nuova era per l’Arabia Saudita. L’ascesa del principe Mohammad bin Salman , figlio del re Salman bin Adbulaziz, è stata accompagnata da un’ondata di promesse di cambiamento sociale ed economico di dimensioni epocali, come la rimozione del divieto di guida per le donne o gli innumerevoli tentativi di rendere l’Arabia Saudita un paese più “tollerante”: argomenti da sempre considerati tabù in uno Stato tanto storicamente estraneo quanto intimamente vicino alle maggiori democrazie occidentali.
La comunità internazionale ha per mesi lodato tali iniziative e l’Arabia Saudita si è aperta all’Occidente e al mondo intero con l’annuncio del piano di riforme economiche Vision 2030: l’ambizioso progetto di Mohammad bin Salman volto a ridurre e limitare la dipendenza saudita dal petrolio, attraverso una differenziazione del suo mercato e lo sviluppo di servizi pubblici. Vision 2030 ha attratto una lunga lista di compagnie e aziende pronte ad investire nel programma di riforme; primo tra tutti Richard Branson – magnate inglese e fondatore del gruppo Virgin – che, esattamente un anno fa, diventava il primo investitore internazionale ad abbracciare l’iniziativa saudita.
New investment in our space cos is progress for Saudi Arabia's Vision 2030, focused on tech, education & tourism https://t.co/hmb3m1sCT9 pic.twitter.com/Sohcm95fEH
— Richard Branson (@richardbranson) October 26, 2017
L’immagine di un’Arabia Saudita pronta al cambiamento è stata, per mesi, alimentata nei salotti della politica internazionale: la sua elezione al comitato per i diritti delle donne alle Nazioni Unite, il tour americano di Mohammad bin Salman e il suo incontro con il neo-presidente eletto Donald Trump, sono – ad esempio – solo alcuni degli esempi che la comunità internazionale ha avuto di questa nuova direzione presa dal governo di Riad.
Al di là di questa facciata progressista, tuttavia, la nuova Arabia Saudita si è confermata nei fatti una monarchia assoluta saldamente dominata col pugno di ferro dalla famiglia reale Al-Saud: pubbliche minacce agli intellettuali dissidenti, arresti sommari, estrema gerarchizzazione sociale, promozione di ideali ultra-nazionalisti sono solo alcune (e anche tra le piu lievi) politiche che in molti critici hanno sottolineato quando nei salotti televisivi si è discusso del principe Mohammad bin Salman e del nuovo corso dell’Arabia Saudita.
Il motivo principale per cui è necessario dilungarsi tanto in questa premessa diviene apparentemente chiaro nella storia di Jamal Khashoggi – giornalista e collaboratore per Washington Post, BBC, MSNBC e Al Jazeera – scomparso dall’ambasciata saudita di Istanbul il 2 Ottobre.
Jamal Khashoggi al Project on Middle East Democracy (ph: April Brady)
Jamal Khashoggi ha cominciato il suo percorso da giornalista nel 1985 e si è sempre distinto per aver collaborato con testate come Al-Arab o Al-Watan che facevano della loro imparzialità un punto di vanto. Non un fiero dissidente politico né un pericoloso rivoluzionario ma un riformista che desiderava vedere il proprio paese risorgere dal buio della dittatura che lo opprimeva. Costretto al licenziamento da Al-Watan per aver criticato le dure leggi islamiche del regno, fu ufficialmente esiliato nel 2016 per la sua linea dura sulle politiche saudite nei confronti di Qatar, Yemen e Canada.
Secondo l’intelligence turca, Khashoggi sarebbe stato rapito, torturato e assassinato da un team di 15 agenti sauditi arrivati a Istanbul alle 3.15 della notte su due voli privati partiti da Riad: l’omicidio si sarebbe consumato all’interno del consolato, dove il giornalista si trovava per ottenere dei documenti che certificassero il divorzio dall’ex-moglie, mentre la sua attuale compagna Hatice Cengiz aspettava fuori dalle mura dell’ambasciata. Reuters, tramite una fonte anonima, riporta che le autorità turche siano in possesso di filmati che confermino questa ricostruzione.
Il governo saudita ha categoricamente negato le accuse riferendo che Khashoggi avrebbe, in realtà, lasciato il consolato tramite una porta di servizio. Non esiste prova delle dichiarazioni saudite: secondo le autorità turche, i filmati delle telecamere di sicurezza dell’ambasciata sarebbero stati rimossi.
President Donald Trump and First Lady Melania Trump join King Salman bin Abdulaziz Al Saud of Saudi Arabia (ph:Shealah Craighead)
Secondo quanto riportato dal Washington Post, l’intelligence americana avrebbe intercettato delle comunicazioni tra agenti sauditi relative a un piano di cattura del giornalista.
Il coinvolgimento degli Stati Uniti è un punto cruciale della vicenda. Dal 2017, infatti, Khashoggi era residente legale negli USA e – in quanto tale – avrebbe diritto alla protezione riconosciuta nel Global Magnitsky Act, il che permette agli Stati Uniti di imporre sanzioni nei confronti dei governi stranieri che si macchino di abusi dei diritti umani.
Per l’ambasciatore americano a Riad, Robert Jordan c’è una possibilità del “95% che l’Arabia Saudita sia responsabile dell’omicidio di Khashoggi”; tali dichiarazioni hanno spinto il Segretario di Stato americano Mike Pompeo a supportare una “completa investigazione su quanto accaduto”. I Senatori Rand Paul e Bob Corker hanno addirittura chiesto il blocco della vendita di armi ed equipaggiamenti americani all’Arabia Saudita.
Il presidente americano Trump è intervenuto sulla vicenda chiedendo chiarezza su quanto accaduto ma si è dimostrato inflessibile sulla richiesta dei Senatori. “Un blocco sulla vendita delle armi non è accettabile. […] Gli arabi hanno investito 110 miliardi di $ in prodotti e in lavoro americano”.
C’è da chiedersi se l’investimento di cui parla Trump in questo caso sia relativo al costante finanziamento della macchina bellica saudita in Medio Oriente da parte degli Stati Uniti oppure se si riferisca al tristemente famoso accordo tra l’Arabia Saudita e il Segretario del Tesoro dell’amministrazione Nixon, William Simon; accordo con il quale gli arabi acquistarono gran parte del debito pubblico americano, magistralmente descritto da Andrea Wong in un articolo per Bloomberg intitolato “The untold story of Saudi Arabia’s 41 years old US debt secret”.
Il presunto assassinio di Jamal Khashoggi è solo l’ultimo, triste esempio di una lunga lista di lampanti violazioni dei diritti umani da parte dell’Arabia Saudita e il fatto che il mondo intero sia privo di mezzi per rispondere a tali crimini è la dimostrazione della reale natura delle relazioni che intercorrono tra Stati Uniti e il regime di Salman bin Abdulaziz.
Francesco Maccarrone
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