La società moderna ara e rivolta il terreno su cui è poggiata come nessun’altra ha mai fatto prima. Il suo progresso tecnico-scientifico ha sepolto tutto ciò che un tempo pareva naturale: rapporti di lavoro, di proprietà e di dominio tradizionali; costumi, rituali, articoli di fede tramandati, ritmi e tempi di vita abituali; velocità, forme di pensiero e modi percettivi. Non c’è più nulla di ovvio. L’unico elemento immutabile è diventato il continuo mutamento: una condizione di irrequietezza che rasenta l’isteria sociale, l’agitazione, il fermento universale. Ed è la stessa rete mediatica altamente tecnologizzata a spingere in tale direzione.
La televisione, dal canto proprio, ha introdotto un suo specifico linguaggio in cui l’immagine prevale sulle parole, le quali si limitano solitamente a svolgere una funzione di veloce commento. Ha, cioè, imposto una forma di comunicazione nella quale le immagini tendono sempre più a sostituire le spiegazioni e i concetti astratti, indebolendo, così, la capacità degli esseri umani di produrre ragionamenti e di comprendere razionalmente. È assai singolare come gli spettatori abbiano perso e perdano progressivamente la propria capacità di critica e di discernimento del vero dal falso. In questo senso, si ha una televisione la cui programmazione è diventata via via più scadente, volgare e disinteressata agli effetti culturali (e cognitivi!) che produceva nell’opinione pubblica. Nelle condizioni imposte dalla concorrenza, il trend orientato alla spettacolarizzazione continua è inevitabile, alla stregua dell’innovazione tecnologica permanente.
Notoriamente, giornalisti e redattori si occupano di diffondere notizie – in altre parole, di selezionare le informazioni. Si possono riferire tantissimi fatti: che ieri vi è stato un temporale, che diciotto magistrati sono impegnati in favore del piccione ucciso, che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non fruisce del volo di Stato; in quest’ultimo caso, l’opinione pubblica e l’informazione fanno della normalità un’eccezione. Da un punto di vista giornalistico, tuttavia, queste notizie non sono notizie: non meritano di essere comunicate a un vasto pubblico tramite il giornale, la radio, la televisione o il Web. Non che tutto questo sia propriamente nuovo: l’origine di tale processo sta probabilmente nella nascita del così detto infotainment, quel genere ibrido derivato dalla commistione delle trasmissioni di informazione e di intrattenimento, per il quale la notizia non è più soltanto il contenuto del reporting giornalistico e non risponde alla disciplina della cronaca, ma diventa l’oggetto di conversazioni dei salotti televisivi. I confini tra programmi di informazione e trasmissioni di infotainment diventano sempre più labili nella misura in cui i primi ricorrono a tecniche appartenenti ad altri generi, sicuramente più spettacolari. Al giornalista o tele-giornalista, così, non è più richiesto di porgere la notizia, di saperla interpretare e di approfondirla commentandola, bensì di rappresentarla, diventando uno showman. E ciò a propria volta significa: merita il nome di “notizia” solo quanto, preso in senso rigoroso, è degno di essere comunicato ed è rispondente ai tre requisiti di correttezza, obiettività e completezza.
Rientriamo, in questo modo, in un discorso più complesso, che riguarda la misura in cui i giornalisti e tele-giornalisti vogliono farsi comprendere dalla gente e quella in cui rinunciano quotidianamente a svolgere il ruolo di “cani da guardia” della democrazia. La situazione di cui sopra non è soltanto il risultato di politiche sciagurate e decennali che hanno impoverito e marginalizzato la società, né solo di imprenditori collusi coi poteri mafiosi e di funzionari dello Stato infedeli e arroganti. Secondo quanto riporta un articolo de La Stampa del 12 febbraio 2015 a cura di Mimmo Candito, l’Italia non era mai precipitata così in basso nella classifica mondiale della libertà di stampa: è al 73esimo in coda ai Paesi occidentali, scivolata di ben 24 posti in un solo anno. E non esistono buoni segnali che si stia cambiando rotta, anzi, sembra che il nostro Paese sia ormai alla deriva verso la “terra del silenzio”. Da questo punto di vista, è come se vivessimo in un silenzio indotto da un sistema politico e normativo che premia di più chi tace rispetto a chi scrive, parla e condivide informazioni. In realtà, da noi non esiste tanto la censura, quanto la forte disincentivazione della gente (e non solo di coloro i quali lo fanno per mestiere) a scrivere del potere politico ed economico, facendoli divenire dei narratori mendaci.
Sebbene da sempre le notizie siano (pre)fabbricate, all’inizio per esse valeva ciò che Theodor W. Adorno chiama il primato dell’oggetto: primario era l’evento considerato degno di essere comunicato. Però, nel racconto delle tragedie e dei fatti di cronaca italiana, per esempio, è mancato spesso uno sguardo umano ai fatti; a prevalere è stata, invece, una spettacolarizzazione superficiale. Mancano i Giovanni Testori o i Pier Paolo Pasolini del 2015: intellettuali che si sporchino le mani con la realtà, alla ricerca drammatica di un suo significato. Per conoscere e mostrare veramente la realtà bisogna scavare in profondità, rinunciando a diventare parzialmente o totalmente asserviti ai poteri; chi vive un distacco dal mondo è nella posizione giusta per guardare oltre l’apparenza, per leggere nel profondo e, di fatto, aiuta tutti a saper cogliere il peso delle notizie. Il giornalismo dovrebbe essere un mestiere che in Italia (e, in genere, nell’Occidente) faccia meno circo e meno audience e faccia amare il silenzio, l’umanità, la verità.
Enrico Riccardo Montone
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