Siamo sempre più abituati a leggere classifiche di lingue stra-parlate al mondo: 500 milioni parlano inglese, più del doppio mandarino e, fra spagnolo e cantonese, non si sa bene chi sale in continuazione sul podio per “aggiudicarsi” il terzo posto. Accanto a tali “macisti”, tuttavia, esistono anche circa duemila idiomi parlati da meno di mille persone ciascuno e altrettanti sopravvissuti nonostante le bizzarrie che stanno alla base del loro sistema fonetico, lessicale o sintattico.
Fra le dieci lingue più strane è stata individuata, all’ultimo posto, l’archi: si tratta della parlata del piccolo villaggio Archib, situato sul bordo del Mar Caspio, nella Russia meridionale. Nonostante sia la madrelingua di circa 1200 persone, l’archi ha una caratteristica strabiliante, poiché per ogni suo verbo esistono potenzialmente fino a 1.500.000 coniugazioni separate, basate su diversi criteri aspettuali (azione compiuta e ancora in svolgimento, azione conclusa, azione appena intrapresa, azione solo intenzionale, etc.). Ancora nell’emisfero boreale spicca la yupik, parola che descrive una famiglia di cinque lingue diffuse nella Siberia occidentale e in Alaska: sono tutte diverse fra loro e ciascuna è polisintetica al punto da avere intere frasi composte da una sola parola. Alcune hanno lo svantaggio di essere così specifiche da esistere solo all’interno di un periodo ben preciso: ne è un esempio la frase (e contemporaneamente parola) tuntussuqatarniksaitengqiggtuq (“egli non aveva ancora annunciato che stava andando a caccia di renne”). Fuori contesto, l’unica parte utilizzabile ed esistente della frase consiste nella parola “renne”. Pochi idiomi, però, reggono il confronto con la polisinteticità del pawnee, parlata dai nativi americani indigeni del Nebraska il cui alfabeto, composto da 9 consonanti e 8 vocali, consente tuttavia di formare parole con più di 30 sillabe.
Altro idioma singolare è il sentinelese, poiché nessuno al mondo ne sa anche solo minimamente qualcosa: la popolazione residente nella piccola isola dell’Oceano Indiano di North Sentinel, infatti, intrattiene con l’esterno delle relazioni quasi inesistenti, al punto che il miglior tentativo di comunicazione con tale minoranza consiste nello scambio di alcuni secchielli colorati. Incuriosisce per altri versi anche il linguaggio silbo di La Gomera, sulla costa della Spagna. Tale lingua, infatti, possiede la rara caratteristica di essere costituita da soli fischi, in base alla cui altezza, durata e intensità si distingue il senso di quanto affermato. Ben diverso è, invece, il caso del xhosa, idioma parlato in sud America da quasi 8 milioni di persone che non funziona sulla base di fischi, bensì di variazioni tonali. Ciò significa che anche la stessa parola può avere significati differenti, sulla base del tono con cui viene pronunciata. L’attributo di idioma più semplice esistente è stato dato a un’altra lingua dell’Ispanoamerica, il pirahã, parlato in Brasile e costituito – stavolta esclusivamente – da ronzii e fischi, grazie ai quali i parlanti nativi riescono ancora ad intendersi perfettamente. Stupisce analogamente il caso del rotokas, idioma sopravvissuto in Papua Nuova Guinea e composto solo da 12 fonemi, nel caso specifico non aventi nemmeno una variazione tonale. Come si riesce a comunicare? Si accompagnano i fonemi con suoni nasali più o meno pronunciati, che in tal caso fanno assolutamente la differenza tra una parola e l’altra.
Spostandoci nel continente africano, ci rendiamo facilmente conto che anche qui le stranezze idiomatiche non sono affatto rare. Ponendo particolare attenzione alla famiglia di lingue bantu, ci accorgiamo subito che questa comprende più parlate, fra cui la xhosa e la khoisan. I parlanti nativi della khoisan provengono quasi tutti dall’Africa del centrosud e non hanno delle norme collettive da seguire, perché della parlata esistono numerosi dialetti per ciascuna tribù. Dal momento che queste vivono nel deserto del Kalahari, però, la comunicazione fra loro è rara e le correzioni che si possono segnalare a vicenda lo sono altrettanto. Fra le lingue khoisan è da menzionare l’idioma taa aan (letteralmente “linguaggio degli esseri umani”), che si distingue perché i fonemi da cui è composta raggiungono – contando le sole consonanti – i 164, di cui 111 davvero difficili da pronunciare per un parlante nativo europeo. Per lo più, il taa aan si serve di quattro diverse tonalità: alta, media, bassa e medio-bassa, cosicché le combinazioni di suoni pronunciabili si moltiplicano in maniera irrefrenabile.
Una rapida analisi degli idiomi menzionati fino ad ora fa capire facilmente come mai stranezze simili siano sopravvissute fino ad oggi, spesso senza un vero e proprio sistema che regolamenti fonemi, grafemi e tonalità. La risposta è da rintracciare nelle aree geografiche interessate da simili fenomeni linguistici – quasi nessuno nel bel mezzo degli Stati Uniti o dell’Europa –, tuttora sottosviluppate e, in alcuni casi, emancipatesi solo di recente sotto l’influenza delle grandi potenze occidentali sopravvissute fino al XX secolo e ora trasformatesi da potenze politiche a egemonie esclusivamente economiche. Un’identità in quanto popolo manca in molti dei parlanti nativi citati e, nel caso in cui sia presente, è tuttavia concepita diversamente rispetto a come la si considera nel continente europeo o nordamericano, cosicché il criterio fondamentale alla base di un idioma rimane la capacità della collettività di scambiare facilmente informazioni. Sistematicità, regole ben definite, chiarezza e semplicità non sono obiettivi prioritari per determinate comunità: ad uno sguardo esterno ciò può sembrare bizzarro, eppure altrettanto bizzarri potrebbero sembrare i nostri innumerevoli manuali di grammatica teorica a un parlante nativo di lingua yupik, rotokas o xhosa.
Eva Luna Mascolino
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