La storia, specie quella inerente il periodo della seconda guerra mondiale, è piena di crimini e soprusi contro popoli, uomini, donne, bambini, i quali diritti sono stati sistematicamente calpestati, violati e cancellati. Indignarsi, rabbrividire e vergognarsi sono spesso reazioni spontanee quando si viene a conoscenza di alcuni di questi oscuri crimini, quando sovviene in mente una domanda: com’è possibile che degli esseri umani possano perpetrare tali orrori senza provare pietà per il dolore dei propri simili?
Tra i tanti delitti contro l’umanità di cui si è venuti a conoscenza recentemente, figura anche la storia delle Comfort Women, per anni tenuta a tacere e quasi ignorata dalla storiografia ufficiale. Le Comfort Women, definite così in quanto considerate “donne di conforto” erano giovani provenienti da Giappone, Cina, Corea, Thailandia, Vietnam e Filippine, ma anche da paesi occidentali quali Olanda, usate come palliativo per tenere a bada i malumori dei soldati dell’esercito imperiale giapponese durante la seconda guerra mondiale. Molte di loro venivano rapite o attirate dai soldati con false promesse di lavoro, per poi essere rinchiuse in delle “strutture di conforto”, dove file di soldati giapponesi si recavano per abusarne come e quanto volevano, sfogando su di esse rabbia e frustrazioni provenienti dai traumi vissuti nei campi di battaglia. Le donne “reclutate” per diventare Comfort Women erano spesso in realtà poco più che bambine, con età compresa tra i 12 e i 14 anni. Si stima che tra il 1932 e il 1945 tra le 80mila e le 200mila donne e bambine siano state costrette a prostituirsi nelle comfort station, le quali erano distribuite in ogni regione dell’Asia orientale sotto il dominio dell’impero giapponese. Alcuni documenti mostrano che l’intenzione di creare questi centri del confort per i soldati nacque per evitare gli stupri di guerra e la trasmissione di malattie veneree, chiedendo dunque la partecipazione al progetto di prostitute giapponesi volontarie; ma con l’andare avanti della campagna d’espansione giapponese, i militari si trovarono a corto di volontarie e decisero così di sfruttare le donne che abitavano nelle zone invase, specie in Corea. Alla fine della guerra i centri del comfort vennero chiusi, ma oltre un terzo delle giovani che vi erano rinchiuse morirono e le poche sopravvissute segnate dal dolore e dall’umiliazioni subite per un lungo periodo rimasero in silenzio. La faccenda cominciò a venire alla luce solo dopo il 1965, ma inizialmente fu problematico stabilirne la veridicità a causa delle poche testimonianze, dato che molti documenti furono distrutti dagli ufficiali giapponesi che temevano di essere perseguiti per crimini di guerra. Col tempo però si fecero avanti molte testimonianze di donne sopravvissute e di soldati che raccontarono le atrocità subite durante la detenzione forzata nei centri realizzati dall’esercito giapponese; molte di esse rimasero sterili a causa dell’efferatezza degli abusi subiti.
Fra queste testimonianze figura quella della oggi 89enne Kim Bok-dong, coreana che fu deportata con la forza dall’esercito giapponese quando aveva ancora 14 anni. Kim ha di recente raccontato la sua storia in un intervista alla CNN, dalla quale emergono particolari raccapriccianti di quei terribili anni che le hanno segnato per sempre la vita. Nel 1994 il governo giapponese creò il Fondo Donne Asiatiche per distribuire compensazioni supplementari alle donne di Corea del Sud, Filippine, Taiwan, Paesi Bassi e Indonesia; inoltre furono presentate le scuse dall’allora primo ministro giapponese Tomiichi Murayama. Oggi, l’attuale governo giapponese ha invece un atteggiamento ambiguo riguardo alla questione delle Comfort Women; l’odierno primo ministro, Shinzō Abe, ha infatti dichiarato nel 2007 che non vi erano prove che il governo giapponese avesse tenuto schiave sessuali. Così tutte le Comfort Women rimaste in vita lottano ancora oggi per far sì che ciò che è allora successo non venga dimenticato, chiedendo ancora scuse ufficiali da parte dell’odierno governo giapponese.
Lorena Peci
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